L'immagine della débacle dell'auto americana è nei volti di Rick Wagoner, Alan Mulally e Bob Nardelli. Espressioni funeree, quelle degli amministratori delegate delle Big Three di Detroit General Motors, Ford e Chrysler, costretti a recarsi in pellegrinaggio al Congresso, per metà come imputati della crisi e per metà come questuanti alla ricerca di aiuti. Perché senza soccorsi rapidi, hanno dichiarato in coro, è in gioco la stessa sopravvivenza.
La profondità del collasso è misurata dallo sprofondare delle vendite, cadute ai minimi da 25 anni con una flessione-simbolo del 32% in ottobre, la dodicesima consecutiva, a 836.156 veicoli, pari a vendite su base annuale inferiori ai 10,6 milioni rispetto ai 16 del 2007: il mese più nero dalla fine della Seconda guerra mondiale. Nei primi dieci mesi 2008 il declino è stato del 15 per cento. E novembre e dicembre, secondo gli analisti, potrebbero chiudere ancora peggio.
Il 2009 non promette meglio: l'ad di Renault e Nissan Carlos Ghosn, osservatore se non disinteressato almeno in parte distaccato di fronte al crollo di Detroit, prevede uno "scenario nero". Caratterizzato da mercato in declino, credito paralizzato e recessione globale. «Sarà dura. La probabilità – ha detto – di crack di una o più aziende del settore è molto alta». Il responsabile del marketing di Ford Jim Farley, che invece è nel mezzo della bufera, ha definito il clima simile allo shock dell'11 settembre 2001, «quando tutti erano incollati ai teleschermi per sapere che cosa poteva ancora accadere». Segni di ripresa del mercato, anche secondo i più ottimisti, non potranno affiorare prima del 2010.
Gm è la più fragile delle tre grandi. In ottobre ha registrato un crollo delle vendite del 45 per cento. Seguita a ruota da Ford (-30%) e Chrysler, vicina al -35 per cento. Anche le case giapponesi soffrono, con Toyota in calo del 23%, Honda del 25% e Nissan del 33. Ma condizioni finanziarie più solide, impianti più avanzati e meno costosi, miglior mix di modelli consentono loro di sopportare meglio la crisi. Nel terzo trimestre Gm e Ford hanno bruciato assieme quasi 15 miliardi di dollari di riserve in contanti, tanto da spingere Gm a dire che potrebbe non avere fondi sufficienti a completare l'anno, o quantomeno il primo trimestre 2009.
La crisi e la carenza di finanziamenti ha spazzato via anche le prospettiva di una fusione tra Gm e Chrysler. Entrambe, come Ford, sono impegnate in ristrutturazioni, tagli dei costi e cessioni di asset non strategici. Accusano la crisi del credito e della finanza di aver ingiustamente penalizzato l'auto, già avviata a riforme interne. E nel chiedere aiuto sottolineano il suo ruolo cruciale nell'economia: impiega milioni di addetti in tutti i cinquanta Stati, contando l'indotto. Wagoner ha detto che una fallimento a Detroit eliminerebbe tre milioni di occupati in un anno e cancelerebbe 156 miliardi di entrate fiscali in tre anni.
L'auto è anche il principale acquirente di acciaio, plastica e microprocessori. E le vendite di vetture rappresentano il 4% del prodotto interno lordo. Non manca però chi potrebbe emergere vittorioso da questa crisi epocale: non Gm, Ford o Chrysler, ma marchi stranieri, soprattutto giapponesi e anche europei, da Toyota a Bmw, da Kia a Wolkswagen. E gli Stati del Sud, dalla Georgia all'Alabama, dalla South Carolina al Mississippi al Tennessee, già patria degli impianti più nuovi e produttivi sono destinati, forse, a diventare il nuovo cuore americano dell'auto. Nel Sud le case straniere hanno ormai otto grandi impianti dotati di grande flessibilità tecnologica e del lavoro. Michigan e Ohio rappresentano ancora oggi il 38% della produzione automobilistica americana, ma quattro stati meridionali incalzano ormai con il 24 per cento.
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