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«Non ci sarà una nuova depressione»

dal nostro corrispondente Mario Platero

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21 ottobre 2008


È la roccaforte del pensiero neoclassico e del mercato. La culla da dove sono nati un po' tutti i rivoli del pensiero economico più moderno, incluso quello che ci ha dato le teorie più pericolose della finanza: derivati e dintorni. La Chicago School of Economics, che ha vinto più premi Nobel in economia di qualunque altra università americana, oggi è stretta nell'angolo. Sente fischiare il vento dell'isolamento. Come capitò nel periodo più difficile della sua storia, negli anni 50, quando dominavano i keynesiani e quando diede rifugio al disoccupato Friedrick von Hayek, uno dei capostipiti del pensiero neoclassico moderno. Da Hayek al monetarismo di Milton Friedman, alle aspettative razionali di Bob Lucas, alle ipotesi del mercato efficiente di Eugene Fama, fino a George Stiglitz e Gary Becker, è alla scuola di Chicago che si sono ispirati Margaret Thatcher e Ronald Reagan. È là che sono stati costruiti i pilastri del liberalismo e della deregolamentazione su cui ha poggiato, a partire dagli anni 80, il ciclo economico. E ora, con la Grande Crisi del 2008, con i crolli di Borsa, con mercati monetari e banche senza liquidità, con l'intervento dello Stato per salvare le grandi istituzioni finanziarie, con gli eccessi di chi è andato oltre il mercato approfittandone, la scuola di Chicago sembra improvvisamente relegata nel passato. I suoi economisti sono sul banco degli imputati per aver incoraggiato gli eccessi che hanno portato alla catastrofe finanziaria dei nostri giorni. Uno di loro, ormai il più anziano, uno dei simboli stessi della Scuola è Becker, 77 anni, premio Nobel nel 1992 per le relazioni tra l'economia e certi comportamenti sociali come la criminalità. Lo abbiamo intervistato a una settimana da una decisione che segna simbolicamente la fine di un'epoca: il Premio Nobel per l'economia a Paul Krugman, il neokeynesiano più appassionato e aggressivo del nostro tempo.

Professore, con il premio Nobel a Krugman, alla fine hanno vinto i keynesiani?
La motivazione del Nobel a Krugman è per il suo lavoro sul commercio internazionale. È buon lavoro, ma non affronta questioni macro, è neutro, non è né keynesiano né anti keynesiano. Che poi il premio abbia un significato politico è plausibile.

Comunque sia, Krugman a parte, c'è una reazione popolare contro il mercato, è preoccupato?
Oggi non sappiamo se entreremo in una severa depressione economica o in una recessione. Io credo più nella seconda ipotesi: da qui al 2009 avremo una recessione, magari lunga e dura, ma pur sempre una recessione. In quel caso non avremo uno scardinamento del mercato. Dopo la crisi ci saranno più regole nella finanza, ma il parametro di fondo su cui poggerà l'economia americana resterà il mercato.

Ma la crisi non viene forse da innovazioni del mercato, come i derivati?
Io credo che l'elemento più serio che ha portato alla crisi sia stato l'enorme indebitamento delle istituzioni finanziarie. Pensi al 1929, abbiamo visto il panico e la Borsa è crollata anche senza derivati. Forte indebitamento e valutazione del rischio vanno a braccetto e l'arroganza a volte più giocare brutti tiri.

Resta il fatto che voi liberisti siete oggi sul banco degli accusati. Come nel 1929, la crisi è venuta in un contesto di totale laissez-faire.
Ripeto, non credo che finiremo come negli anni 30. Ma è importante distinguere. Il mercato libero ha un impatto nel mondo industriale, non solo su quello finanziario. E se dobbiamo valutare il prestigio del mercato libero dovremo vedere se negli ultimi 30 anni, al netto della crisi, c'è stato o no un aumento forte del benessere. Io credo di sì. E non credo che avremmo avuto i progressi avuti con uno statalismo rigido, protezionista e assistenzialista.

Diminuirà la leadership americana nel mondo?
Non credo. Oggi l'America è più debole, ma anche la Russia. E il mercato giapponese è sceso quanto il mercato americano. Torno al primo punto: se entreremo in depressione e il libero mercato avrà difficoltà, allora potrà esserci una crisi della leadership americana.

Che ricetta prescrive?
Più regole, trasparenza per il mercato finanziario, più capitale per le banche, eliminare Freddie Mac e Fannie Mae: non hanno causato, ma hanno contribuito alla crisi. Ricordare un principio: un'azienda non è mai troppo grande per fallire, ma il sistema è troppo grande per fallire.

Chi vincerà la elezioni?
Barack Obama è chiaramente in vantaggio. Mi preoccupa avere Casa Bianca e Congresso dello stesso colore. È contro il nostro innato principio dei check-and-balances. Lo dico anche per i repubblicani. Con Bush alla Casa Bianca e con un Congresso repubblicano sono stati commessi errori gravi, troppe spese, troppi favoritismi locali.

E se vince Obama?
Il Congresso è controllato dalla sinistra democratica e Obama è anche lui nella sinistra del partito. Questa combinazione mi preoccupa. Rischiamo un contraccolpo sul libero commercio, avremo un pericolo di tasse più alte e di nuove spese pubbliche, di interventismo e di nuove regole a tutto campo. E il costo sull'economia di questi sviluppi, se ci saranno, lo vedremo solo molto più in l

Presto ci sarà un G-8 allargato per discutere di architettura mondiale.

Si parla di una Bretton Woods 2: non credo ci voglia un ritorno a un sistema di cambi fissi. Non vedo una nuova centralità del Fondo monetario, è una grande burocrazia che ha commesso molti errori, pensi al Sud America. Meglio l'idea di un G-8 allargato.

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