La banca centrale libica sembra intenzionata a chiedere un posto nel consiglio d'amministrazione di UniCredit, di cui è ormai secondo azionista (dietro la Fondazione Cariverona) con il 4,23%. L'obiettivo, riferisce una fonte, sarebbe la vicepresidenza dell'istituto, a cui i libici avrebbero candidato il governatore della banca centrale, Farhat Omar Bengdara. La richiesta potrebbe essere stata già avanzata ai grandi soci di UniCredit, banca in cui i fondi sovrani di Tripoli hanno investito oltre 1 miliardo di euro comprando titoli sul mercato. Come è noto, la Libia ha inoltre dato la propria disponibilità a sottoscrivere una tranche di 500 milioni del prestito obbligazionario di prossima emissione. UniCredit ha attualmente 5 vicepresidenti.
Oltre al dossier UniCredit, i fondi libici, secondo la medesima fonte, stanno studiando l'acquisizione di una quota dell'Eni (di cui avrebbero già lo 0,7%) e non avrebbero rinunciato all'ingresso in Telecom Italia.
L'Eni, che ieri a Piazza Affari è salita del 14,53% a 15,36 euro, rappresenta una grande opportunità d'investimento per la Libia del colonnello Gheddafi, dove la compagnia petrolifera italiana ha radici storiche. Alle quotazioni odierne, i giacimenti del gruppo del "cane a sei zampe" sono valutati nell'ordine di qualche dollaro al barile; valutazione risibile anche nell'ipotesi di una perdurante discesa del prezzo del greggio. E, a questi prezzi, il suo dividendo assicura un rendimento medio del 10 per cento. La finanza libica, che accumula circa 2 miliardi di euro al mese vendendo gas e petrolio, punta dunque esclusivamente al potenziale di rivalutazione di un eventuale investimento in Eni: di certo non alla sua gestione. E tra petrolio e finanza, a Tripoli sono ritornati in auge uomini come Mohammed Layas, oggi presidente della Libian Investment Authority, già governatore della banca centrale e grande negoziatore dell'uscita della Lafico dal capitale della Fiat.
Come è emerso dalla conferenza internazionale Eurogolfe 2008 (su Europa, Mediterraneo e Stati del Golfo), che si conclude oggi alla Fondazione Cini di Venezia, i fondi sovrani dei Paesi arabi, dall'Arabia Saudita, ad Abu Dhabi, da Dubai al Qatar, non perseguono fini predatori, non approfittano della crisi finanziaria globale e del crollo delle quotazioni di Borsa per acquisire il controllo delle industrie strategiche dei Paesi occidentali. Anzi, cercano di entrare nel capitale di società profittevoli con il consenso politico dei governi per moltiplicare la massa dei profitti realizzati con le materie prime energetiche.
«Non pensano alle Opa ostili, ma anzi - riferisce un uomo d'affari arabo che chiede di non essere citato - mantengono il basso profilo per non essere presi tra due fuochi: le pressioni politiche dell'Occidente da un lato e quelle delle popolazioni arabe che vivono in molti casi ancora in condizione di povertà dall'altro. L'eccesso di ricchezza crea gelosie, sia all'esterno che all'interno degli Stati arabi. I responsabili di questi fondi non godono di popolarità nemmeno nei loro Paesi. Uno Stato come il Qatar, un tempo totalmente sottomesso all'Arabia Saudita, ha oggi tra i suoi migliori alleati l'Iran, a cui deve la sua fortuna anche il Dubai, dove Teheran ha riciclato i suoi capitali dopo l'avvento del fondamentalismo islamico e dove si sono diretti anche i capitali russi. L'Europa si rassicuri: i fondi sovrani - conclude la fonte - non hanno alcun interesse a scalare le grandi aziende occidentali».
Finanza & Potere, il blog di Giuseppe Oddo