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Previdenza / Pensione di Stato a rischio economia, demografia e scelte politiche

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6 SETTEMBRE 2008

«Tanto, quando avremo raggiunto l'età necessaria, la pensione pubblica non esisterà nemmeno più». Questo mantra, forse in funzione apotropaica, è tra i luoghi comuni che ricorrono più spesso nei discorsi di coloro che sono appena entrati o che si affacciano oggi sul mercato del lavoro. A basarsi sull'opinione delle giovani generazioni, insomma, la previdenza di Stato è tutt'altro che "sicura". Eppure, almeno secondo le analisi attuariali di finanza pubblica, non esiste alcun serio rischio di evaporazione della pensione di anzianità. Semmai ed è piuttosto questo il vero dilemma a creare apprensione sono le proporzioni del tasso di sostituzione.
Nel lessico arcano della previdenza, il tasso di sostituzione è la percentuale del reddito precedente garantita dalla pensione. Questo valore è destinato a variare nel tempo: chi va in pensione domani avrà un tasso di sostituzione sicuramente superiore a chi raggiungerà i requisiti previdenziali tra dieci, venti o trent'anni. Già, perché il tasso di sostituzione non è un dato immutabile, ma cambia – e cambierà in funzione della sostenibilità finanziaria per il bilancio dello Stato della spesa previdenziale. Un dato, questo, sul quale giocano tre ordini di fattori: economici, demografici e politici.
Prendiamo, per esempio, le stime più recenti, realizzate nel 2007 dagli esperti della Ragioneria generale dello Stato del ministero delle Finanze, sull'evoluzione del tasso di sostituzione netto della previdenza pubblica e complementare rispetto al reddito personale. Stime che riguardano un periodo lunghissimo, dal 2005 alla metà del ventunesimo secolo. Un periodo talmente esteso rende arduo effettuare stime attendibili, perché le ipotesi sui dati economici possono essere molto lontane dalla realtà. Nel caso in questione, i principali indicatori macroeconomici considerati sono il tasso di variazione nominale della produttività per occupato (stimato al 3,65%), il tasso di inflazione (2%), il tasso di crescita del Pil nominale (3,45%). Ma anche l'aliquota contributiva per la previdenza complementare (6,91%, pari al Tfr) e il tasso di rendimento reale lordo dei fondi pensione (3%). Sin d'ora possiamo affermare che nel 2008 sarà impossibile rispettare i parametri relativi a crescita del Pil e inflazione e che anche molti fondi pensione non riusciranno a rendere il 3%. Il risultato mostra comunque una previsione di calo del tasso di sostituzione nel tempo.
Questa riduzione è legata al secondo ordine di problemi, la demografia. Proprio l'invecchiamento della popolazione – che vede l'Italia tra i Paesi più "anziani" del mondo, insieme al Giappone –, è stato alla base della riforma del 1995 che calcola le pensioni in base alla speranza di vita del pensionato. Ma quella riforma è basata sulla vita media rilevata dal 1991, aspettative che nel tempo continuano a crescere. Più anno di vita significano però più assegni mensili da pagare. Per mantenere i conti pubblici in equilibrio, così, occorrerà ridurre progressivamente l'importo di tali assegni. Secondo alcuni esperti, questa riduzione a lungo termine potrebbe essere del 10-15% rispetto a oggi. Altro punto nodale è la differenza tra uomini e donne: le donne vivono più a lungo degli uomini ma vanno in pensione prima, dunque costano di più allo Stato. Una questione sulla quale sono puntati i fari di coloro che vorrebbero operare una modifica dei trattamenti per cercare di armonizzare i costi.

Di problema in problema, l'impatto della demografia ci conduce alla terza variabile: le scelte di politica previdenziale che saranno necessarie per gestire il difficile equilibrio dei fondi pubblici. La riforma Dini del 1995 indicava nel 2005 l'anno di revisione dei coefficienti di trasformazione (la percentuale del montante contributivo – il capitale che il lavoratore ha accumulato negli anni lavorati – che "diventa" pensione). Nel 2005 la revisione non è stata fatta e, secondo voci di stampa, l'intervento potrebbe essere effettuato all'inizio dell'anno prossimo. Un altro tassello di instabilità da considerare. Problemi a fronte dei quali il fatalismo pessimista di molti di certo non aiuta, anzi nasconde una grande insidia: quella di non progettare per tempo il proprio futuro previdenziale.


Nicola Borzi
nicola.borzi@ilsole24ore.com

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