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P. Ignazi / Cari professori, bene il merito ma serve autocritica sull'etica

di Piero Ignazi

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13 novembre 2008


Dopo settimane di bellicosi propositi e di stizzite dichiarazioni il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini è scesa a più miti consigli ed ha presentato un decreto legge sull'università assai diverso dal preannunciato decreto taglia-tutto. Rimangono vari problemi irrisolti o mal congegnati, come la falla che consente di continuare a facilitare le carriere interne più che la creazione di nuovi posti (si veda Il Sole 24 Ore dell'11 novembre), ma va salutato con soddisfazione il cambio di tono modulato ora sul dialogo e l'ascolto delle parti coinvolte nel mondo del l'istruzione e della ricerca. Soprattutto benvenuta è l'inversione di tendenza rispetto al decreto Tremonti con il rifinanziamento di alcuni aspetti fin qui negletti quali l'edilizia residenziale per gli studenti e le borse di studio. La "riduzione del danno" della finanziaria si accompagna poi ad una distinzione tra università parsimoniose e università spendaccione per i reclutamenti penalizzando queste ultime, e tra università di punta e università meno attive sul piano didattico e della ricerca nell'attribuzione di una (benché piccola) quota di fondi.
Buoni segnali, quindi, dal ministero. Ora spetta al corpo docente dare prova di "intelligenza", vale a dire di aver capito che spetta anche a loro - a noi, perché chi scrive è professore universitario - cambiare atteggiamenti e comportamenti. E, prima ancora, toglierci dalla testa alcune illusioni pericolose.
Quando si parla dell'università tutti noi docenti ci trasformiamo in commissari tecnici della nazionale che sapevano benissimo quale formazione e quale tattica avrebbe fatto vincere a mani basse la nostra squadra. E il più delle volte invochiamo il modello americano, corrispettivo del mitico Brasile calcistico. Bene, per questa strada non si arriva a nulla perché l'università americana non è trasportabile laddove mancano le condizioni di contesto in cui essa vive: rispetto reverenziale per la cultura (umanistica e scientifica) e per chi vi opera da parte di tutti i settori della società; disponibilità al sostegno anche finanziario da parte del sistema delle imprese e della società civile; deontologia professionale rigidissima e sorvegliatissima; valorizzazione morale ed economica del merito e dell'impegno e, al contrario, discredito per l'incapacità o l'indolenza. Tutto ciò non è esportabile sic et simpliciter in quanto l'università americana riflette quella società e quel sistema di valori. Che in Italia sono molto diversi e non riformabili a colpi di decreto. In particolare la società italiana è lontana psicologicamente ed affettivamente dall'università tant'è che i finanziamenti che essa riceve dall'esterno sono quasi irrilevanti. Inoltre, il nostro è tuttora un paese di familismo amorale e i casi di nepotismo e favoritismo nell'accademia riflettono, in piccolo, un costume nazionale ben più diffuso. Da noi, servono le conoscenze, non la conoscenza, per far carriera. In fondo dove sono gli esempi virtuosi nella società italiana a cui potrebbe far riferimento l'università per riformarsi?
Invece di sognare lo zio d'America che viene a salvarci una volta di più, i docenti dovrebbero incominciare a far piazza pulita di comportamenti endogamici e di padrinato. Anche il passaggio al sorteggio per la composizione delle commissioni per i concorsi non cambierà di molto la qualità della selezione, come ricordava recentemente Guido Martinotti, se non cambierà contestualmente l'"ethos" degli accademici. Certo, con il sorteggio almeno non si riceveranno più dai grandi burattinai della disciplina le telefonate e i bigliettini con la lista di chi votare per ogni concorso (e c'è chi vuol tornare al voto di preferenza...); però le pressioni sui sorteggiati non diminuiranno certo di intensità. Del resto, se uno si candidava ad una commissione dicendo che non avrebbe guardato in faccia a nessuno veniva subito tagliato fuori. E chi voleva proporre un concorso senza indicazione del vincitore era considerato uno stravagante acchiappanuvole. Allora, più di ogni altro aspetto, è l'ethos professionale dei docenti universitari che rende impraticabile un sistema di reclutamento (abbastanza) imparziale come quello americano. L'università riflette il contesto all'interno del quale si trova, ivi compresi i suoi difetti. Ma una classe intellettuale che abbia l'orgoglio di essere tale deve superare questo condizionamento "culturale" e imporre pratiche virtuose di selezione per merito e non per nascita o fedeltà. Dopo il gesto propositivo del ministro spetta ai professori rispondere: perché non pensare ad una dichiarazione solenne in cui ci impegniamo a valutare soltanto sul merito?

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