I ministri dell'istruzione e dell'università che si sono succeduti in Italia negli ultimi governi, sia di destra sia di sinistra, sono sempre stati caratterizzati da uno zelo riformatore straordinario. Peccato che tutte le riforme siano state inutili. Un frullio di cambiamenti che permettesse ad ogni ministro di mettere il suo nome su una riforma della scuola o dell'università senza colpo ferire, senza licenziare un incapace o migliorare la qualità dell'educazione nel nostro Paese. Via i voti a scuola, poi il ritorno da quest'anno; un esame di maturità diverso, poi di nuovo cambiato. Programmi nuovi per questo o quell'anno del percorso scolastico, decisi a tavolino da qualche burocrate ministeriale e non da insegnanti sul campo, che ci capirebbero molto di più. Concorsi universitari nazionali, poi locali poi nazionali ancora. Il 3 più 2 (con vaghi riferimenti calcistici) al posto della laurea unica. I moduli (sfugge cosa siano esattamente) invece dei sacrosanti esami.
Tutto ciò senza toccare minimamente i cardini del problema: il decadimento della meritocrazia, frutto dell'onda lunga del '68, la mancanza di controllo dei cittadini sulla qualità della scuola, bravissimi insegnanti demoralizzati da salari troppo bassi (soprattutto nel Nord, dove la vita è più cara che al Sud) e docenti mediocri e assenteisti premiati da un sistema di concorsi in bancarotta intellettuale.
Si parla tanto di insegnanti multipli o unici nelle scuole. Parliamoci chiaro: gli insegnanti sono diventati multipli non perché si sia capito che questo migliorava la qualità dell'insegnamento, ma semplicemente perché sono nati sempre meno bambini in Italia e non si poteva licenziare nessun docente, anzi le assunzioni dovevano continuare a ritmi elevati. La scuola, insomma, come welfare per giovani laureati. Il nuovo ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca, Mariastella Gelmini, finalmente va nella direzione giusta: meno insegnanti ma pagati meglio. Un suggerimento: anche differenze retributive in funzione del costo della vita locale. Il divario nel costo della vita tra Milano e la Calabria supera il 30%. Questo significa che lo stesso salario nominale è, in termini reali, più alto del 30% in Calabria che a Milano.
Un altro elemento fondamentale è la valutazione delle scuole e dei loro risultati. Ma attenzione: a queste valutazioni devono seguire conseguenze, premi per i migliori e penalizzazioni per i peggiori. Altrimenti a che servono? Non solo, ma se le scuole sono valutate, premiate e penalizzate devono avere abbastanza autonomia per scegliere i migliori insegnanti e le migliori didattiche. Come si fa a giudicare chi non ha facoltà di scelta? E allora via i concorsi pubblici e più autonomia ai presidi di assumere gli insegnanti migliori.
Insomma meritocrazia sia per gli studenti (ben venga il ritorno dei voti, compreso quello di condotta) sia per gli insegnanti. Le famiglie andrebbero poi informate nel modo migliore possibile sulla qualità delle diverse scuole, perché possano scegliere. Ecco che, allora, il meccanismo della domanda crescente per le scuole migliori, e decrescente per quelle peggiori, aiuterebbe il funzionamento di un sistema meritocratico. Per quanto riguarda i presidi, se assumono insegnanti incapaci verrebbero anch'essi puniti dal crollo della domanda per le loro scuole, proprio come la legge della domanda e offerta sul mercato dei prodotti premia quelli migliori.
L'opposizione dovrebbe aiutare Gelmini in questo tentativo, anche se finora è stato illustrato solo a parole (a cui si spera seguano i fatti). Invece il Pd, tramite il suo leader Walter Veltroni, si è chiuso in una critica vecchia e stantia sulla riduzione degli stanziamenti per la scuola. Il problema fondamentale della scuola e dell'università italiana non è la mancanza di fondi, ma la mancanza di meritocrazia e concorrenza.
Per quanto riguarda l'università, il lavoro fondamentale di Roberto Perotti (Il Sole 24 Ore del 30 novembre 2006) lo ha dimostrato in modo incontrovertibile: la spesa per gli atenei italiani, che sia misurata in rapporto ai docenti o agli studenti, è uguale a quella per l'università inglese. Ma quest'ultima è forse la migliore in Europa, mentre quella italiana è tra le peggiori, come produzione di ricerca e qualità dell'insegnamento. Ovviamente si parla in termini di medie e i centri di eccellenza ci sono certamente anche in Italia. Ma proprio per questo i problemi dell'università non si risolvono con più finanziamenti a tappeto, ma con più soldi ben mirati per i migliori. Anche su questo il ministro Gelmini deva impegnarsi, e lo sta facendo, combattendo contro i burocrati dei ministeri che non credono alla concorrenza meritocratica.
aalesina@harvard.edu