La crisi? Quale crisi?, potrebbero dire paesi come Cina e India, che hanno continuato a crescere mentre il resto del mondo perdeva colpi. La Grande recessione, insomma, è stata sì Grande, con la G maiuscola, ma è stata anche diseguale. Le macchie di leopardo della crisi hanno chiazzato il pianeta, e mentre l'effetto complessivo è stato chiaramente negativo, la varietà degli impatti ha fatto aumentare le differenze fra paesi: sia inter-paesi che intra-paesi, dato che la crisi ha colpito in modo differenziato diverse aree, diversi settori e diverse figure professionali.
L'umanità, si sa, ama le classifiche: dalle medaglie olimpiche alle hit parade, dai campionati di calcio alle elencazioni dei più bravi e dei più cattivi nella categorie più strampalate (basta scorrere il Guinness dei primati). Ma anche la "scienza triste" non si sottrae a questa voluttà di classifiche, e i muscoli economici delle nazioni vengono voltati e rivoltati (e talvolta "massaggiati") per mettere in riga i primati, positivi o negativi che siano. Si comprende allora, dato quanto detto prima, come questa crisi sia entrata nel negozio delle classifiche come un elefante in un magazzino di porcellane. E gli alti e bassi descritti a fianco sono solo alcuni dei rivolgimenti che la crisi ha generato.
Ma quanto sono da prendere sul serio questi spostamenti? Alcuni solleticano orgogli nazionali: basti pensare alla "corsa" del Pil fra Gran Bretagna e Italia, che prese abbrivio nel lontano 1986, quando l'Istat rivalutò d'un colpo il Pil italiano di circa il 15%, portandolo a superare di una incollatura quello inglese. Gli inglesi, come avrebbe detto la regina, furono not amused. Poi i sorpassi si sono succeduti, con la perfida Albione che prese di nuovo il comando. Queste corse un po' ridicole sono tuttavia un'opportunità per qualche lezione di economia: offrono il destro per spiegare, per esempio, come il confronto fra la stazza economica di due nazioni non sia corretto quando si usino i cambi di mercato. La comparazione deve essere fatta naturalmente con lo stesso metro, una moneta comune, ma la "ricchezza di una nazione" non consiste di unità monetarie: consiste di beni e servizi prodotti, e questi beni e servizi possono avere prezzi diversi nei due paesi. I cambi di mercato tengono conto solo imperfettamente di questa diversità nel livello generale dei prezzi, e il confronto deve essere allora fatto usando un cambio particolare, la "parità di potere di acquisto", che tiene conto di queste differenze di prezzo.
Un altro caso che solletica i pruriti nazionali è quello del confronto Italia-Spagna. Gli iberici ci hanno superato già da qualche anno come livello di benessere (Pil pro-capite espresso in parità di potere d'acquisto) e la Grande recessione ha fatto allungare ancora il passo alla Spagna (solo nel senso che l'arretramento del Pil spagnolo è stato meno forte della caduta del nostro). Ma l'Italia si può consolare in altri campi: il tasso di disoccupazione spagnolo si è impennato a uno spaventoso 20% quest'anno, mentre quello italiano è aumentato molto di meno. Da questo punto di vista i rivolgimenti delle classifiche sono un'utile cartina di tornasole: mettono in chiaro le fragilità della crescita passata, e i risultati puniscono i paesi che avevano costruito sulla sabbia e non sulla roccia. La Gran Bretagna, per esempio, aveva fondato una buona parte della sua crescita sulle "prodezze" del settore finanziario, ma il valore aggiunto della City, e i consumi opulenti che generava sono stati puniti. Sia l'Inghilterra che la Spagna hanno visto la domanda interna crollare più che in Italia: in Spagna non era la finanza a spingere l'economia ma il settore delle costruzioni, spronato dalla bolla immobiliare e generatore di un "effetto ricchezza" che ha artificiosamente gonfiato una domanda interna insostenibile (il deficit corrente con l'estero era arrivato al 10% del Pil nel 2007!).
Ma le rivoluzioni nelle classifiche rivelano anche profondi aspetti strutturali, primo fra tutti quello del passaggio di peso economico dall'Ovest all'Est. Nell'Asia continentale l'espansione senza sosta dei due paesi più popolosi del pianeta ha segnato il passaggio del testimone della crescita ai paesi emergenti. E allo stesso tempo sta riducendo le diseguaglianze nella distribuzione del reddito mondiale, dato che i paesi che crescono di più sono più poveri dei paesi emersi.