«Sei voti contrari, uno favorevole: la delibera è approvata». Abramo Lincoln aveva il gusto della provocazione. Naturalmente il voto favorevole era il suo, e tanto bastava. Perché lui era il presidente eletto dal popolo. Come eletti dal popolo sono i presidenti delle nostre Regioni. Bassolino come Lincoln? Al di là del paradosso, c'è più di qualche ragione a rendere stridente il paragone.
A 15 anni dalla nuova governance regionale, e alla vigilia di un voto che è anche un importante test politico nazionale, il regionalismo all'italiana resta ben al di sotto delle – forse troppo generose – aspettative. E a migliorare il giudizio non aiuta certo l'inchiesta del Sole 24 Ore del lunedì sulle anomalie nell'anno di legislatura preelettorale. Nelle 13 regioni che andranno al voto, la produzione legislativa è aumentata mediamente del 25%. In Calabria del 222%. Produzione da ansia elettorale?
A leggere alcune deliberazioni il sospetto diventa certezza: sanatorie pluriennali di precari, riorganizzazioni degli uffici di giunte e consigli con annesse assunzioni, risorse assegnate a pioggia con motivazioni da raccontare quando si ride tra amici. Il fondo per favorire il turismo cinofilo in Campania era urgente? Magari no. I tagli fiscali sono certamente sempre graditi, ma perché solo nell'anno delle elezioni?
Nulla di nuovo, certamente. Mali che si rimpallano a tutti i livelli della politica nazionale.
Ma anche la conferma che il regionalismo all'italiana, dopo quasi mezzo secolo dalla sua introduzione, e dopo la riforma elettorale del '95, fatica ancora a produrre risultati.
Le regioni italiane hanno casse ricche, sono capaci di relazioni, dispensatrici di incarichi e ottime committenti di ricerche e consulenze. Ma i guasti sono sotto gli occhi di tutti: moltiplicazione di norme, sprechi, occupazione del tessuto economico, ceto politico ridondante, burocrazie ipertrofiche.
Roberto D'Alimonte, in uno studio recente, ha sottolineato la scarsa qualità delle assemblee regionali, balcanizzate in una pletora di partiti. Soglie di sbarramento troppo basse hanno permesso negli anni il proliferare della frammentazione: in media oltre 10 partiti per consiglio regionale.
E queste assemblee divise sono di fatto dominate da un presidente della giunta onnipotente, pronto in ogni momento a mandare tutti a casa.
Nessun reale potere di controllo e nessuna capacità di incidere sulle politiche da parte di questi consigli, trasformati di fatto in stanze di compensazione tra le esigenze più basse della politica dei partiti.
Gli statuti regionali presentano strumenti utili ai fini di un possibile riequilibrio, ma troppo spesso sono inattuati. Come poco valorizzate sono le potenzialità di controllo che la legge prevede in capo alle sezioni regionali della Corte dei conti.
C'è poi un problema più generale. È quello che già quarant'anni fa, alle origini del regionalismo, veniva sollevato da Francesco Compagna: «La penuria – nelle regioni meridionali in particolare – di un personale politico e amministrativo specializzato in attività di coordinamento, di promozione, di negoziazione, di organizzazione della partecipazione». Insomma, la scarsa qualità del ceto politico locale, adagiato sulla certezza di poter spendere soldi di altri.
Serve una ripartenza. E l'occasione c'è. Perché i prossimi due anni saranno quelli dell'attuazione del federalismo fiscale.
Ed è nella responsabilità fiscale dei nostri Lincoln nei riguardi dei loro elettori che si giocherà il futuro del regionalismo. Fino a oggi, quando la sanità non funzionava, c'era sempre la possibilità di battere cassa a Roma. Da domani non più. Lincoln non avrà più alibi. E forse per le regioni potrà essere davvero un nuovo inizio.