Chi viaggia nelle capitali europee si accorge che negli ultimi anni la questione europea si accompagna ad altre due grandi questioni, l'immigrazione e l'identità. Spesso i dibattiti su questi temi sono accesi, in primo luogo perché l'Europa ha occultato la dimensione della sua identità e del suo ethos fondativo; in secondo luogo perché - come dimostra il referendum sui minareti in Svizzera - l'identità nasconde un'altra questione, quella dell'Islam, con tutto il contenzioso che essa veicola sin dal medioevo. È evidente come manchi una corrispondenza tra la riflessione teorica e culturale sull'Europa e la sua costruzione politica europea: la politica ha imboccato una direzione autonoma mentre la cultura non è riuscita a trovare una sua traducibilità politica. Ne risultano prospettive inquietanti per i prossimi anni: sta infatti vincendo l'Europa delle patrie e non quella dei popoli, come afferma Marco Pannella; si stanno riaffermando gli elementi di un'identità forte, quella nazionale.
Le identità nazionali non sono di per sé negative; ma se è del tutto normale che delle identità si definiscano in funzione di certe tradizioni e certi territori, è grave che tali identità, non avendo uno sbocco europeo, tendano sempre più a richiudersi su se stesse, escludendo così gli ultimi arrivati, gli immigrati, oppure le minoranze nazionali, che non possiedono un'identità nazionale recente.
L'Europa sta preparando la sua autodistruzione se continua a preferire di non scegliere, non definire e non dire. Oggi il panorama europeo induce alla tristezza, perché le discriminazioni sono all'ordine del giorno. Si stanno moltiplicando nelle città europee quelle che già da anni definisco "frontiere simboliche", vale a dire la discriminazione sulla base delle origini culturali.
In tutto ciò è l'Europa che perde: mentre la geografia politica oggi dovrebbe essere pensata in termini di relazioni di inclusione, noi procediamo per esclusioni. La globalizzazione richiede ben altro: richiede esseri umani in grado di superare i confini; richiede la consapevolezza che l'universalismo è in costante evoluzione. Per realizzare l'universalismo non si deve aver paura delle proprie origini né di quelle altrui, se non si vuole trasformare l'Europa in «una zucca» (con le parole del cardinal Bertone), vale a dire in qualcosa di vuoto.
L'Europa attuale non è all'altezza delle sfide che l'attendono: il nodo fra la sovranità degli stati che la compongono e l'invenzione di una sovranità che trascende gli stati-nazione europei è irrisolto e lo sarà a lungo. Certo, si può capire come mai si è giunti a questo punto. È che l'Europa è stata pensata da alcuni solo in termini di trasferimento di competenze - l'Europa del carbone, l'Europa del nucleare, la moneta unica europea etc. - ma ci sono cose che sfuggono alla nozione di competenza e che dunque non possono essere semplicemente trasferite: si tratta di tutto ciò che ha che fare con le identità, le culture, gli usi e i costumi.
Perciò l'aver sottovalutato la questione dei fondamenti (su cui qualunque architettura politica deve basarsi) ha bloccato e continua a bloccare un processo che comunque sarà irreversibile. Il risultato è che non si riesce a risolvere i nodi che paralizzano i progetti politici - vale a dire la questione dell'immigrazione, la questione dell'Islam, la questione della Turchia - perché continuano a prevalere delle frontiere culturali che si traducono in frontiere politiche, mentre nell'odierna geopolitica si assiste allo sviluppo di diaspore mondiali da una moltitudine di origini, dall'Asia all'Africa all'America latina. Che cosa risponde l'Europa dinanzi a un fenomeno che non può realmente controllare?
L'odierna cultura europea sembra determinata da una mondializzazione senz'anima: la nostra è un'Europa che non riflette sui suoi contenuti di civiltà, priva di un autentico progetto, incapace di dire qualcosa sul mondo di oggi; è un'Europa inquieta che sembra sentirsi perennemente assalita da qualcosa di estraneo, un'Europa che teme la propria stessa memoria.
Così non si va molto lontano: le ambizioni iniziali si riducono a mera gestione delle emergenze, e tutto diviene un perimetro chiuso in cui l'orizzonte è difficile da percepire. Oggi viviamo in un mondo completamente decentrato: vi è decentramento delle economie, delle culture, delle lingue, delle religioni. Ma l'uomo, ad ogni latitudine, ha sempre cercato ciò che lo accomunava all'altro, perché l'universalità del genere umano è un dato di fatto. Non possiamo dirci non razzisti e allo stesso tempo pensare che le culture e le religioni rendono gli esseri umani diseguali. Bisogna uscire da questa contraddizione per poter ridare ambizione al progetto europeo.