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LA GOVERNANCE / Le tre partite sul tappeto di Obama

di Mario Platero

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02 febbraio 2010

Le tasche dello Zio Sam sono profonde. Per questo Barack Obama non ha fatto una piega, ieri, quando ha annunciato disavanzi record fra il 2010 e l'anno fiscale 2011, che comincerà in settembre, per circa 3.000 miliardi di dollari. Ma la cifra è colossale. Pari all'intero bilancio di spesa di un anno del governo federale. E poi un tasso di disavanzo del 50% sul budget in America – diciamo in quella post-Reagan, che pure inaugurò la moda dei grandi disavanzi, anzi dei disavanzi gemelli – non l'aveva ancora visto nessuno.

Per ora l'ossessione da disavanzo federale è tutta interna: per le conseguenze sulla crescita americana, per l'occupazione e per le ricadute politiche da qui ai prossimi due anni. Prima in novembre, con le elezioni di metà mandato. Poi al novembre del 2012, quando ci sarà "the real thing", il vero appuntamento, la corsa per le presidenziali. Troppa miopia, troppo campanilismo: i disavanzi di Obama infatti hanno soprattutto una ricaduta globale in termini di approvvigionamenti per coprirli, che aprirà presto una partita a tutto campo. Riguarderà la Cina, ma anche l'Europa, che si confronterà con una questione centrale: fino a che punto la Bce e i governi europei saranno pronti a sostenere il ruolo dell'euro come valuta di riserva internazionale, concorrendo apertamente per il credito cinese?

La questione non riguarda il futuro lontano, ma i prossimi 18 mesi, quando la necessità di finanziare disavanzi altissimi sia in Europa che negli Usa produrrà un "crowding out" sia a livello macro - con la Cina come unico erogatore - che a livello micro. I tassi d'interesse, infatti, cominceranno a salire, i governi faranno concorrenza alle aziende per il credito disponibile, ovviamente vincendo. Questo avrà di rimando un effetto perverso sulle prospettive di crescita per il confluire, soprattutto in Usa, di altri fattori negativi: le difficoltà a reperire credito a buon mercato per le aziende si manifesteranno nello stesso momento in cui l'America aumenterà le aliquote fiscali, forse anche sulla classe media, non foss'altro perché i tagli fiscali messi a punto dall'amministrazione Bush scadranno proprio alla fine del 2010.

Politicamente il passaggio dovrebbe essere automatico e dunque indolore, ma dal punto di vista economico i dolori si sentiranno eccome, sia per la crescita dell'economia che per quella dell'occupazione. Per questo abbiamo visto la settimana scorsa forti preoccupazioni in borsa. E la ripresa di ieri dell'indice Dow Jones, dovuta a un miglioramento del settore manifatturiero, non cambia un movimento tendenziale di fondo: in borsa non ci sarà più un rally simile a quello che abbiamo visto nel corso del 2009 e si aspetta almeno un altro pacchetto di stimoli. Il pronostico? Duecento miliardi di dollari, oggi non ancora in bilancio, entro l'inizio del prossimo anno fiscale.

Ma vediamo che ricaduta globale vi sarà dal finanziamento del disavanzo americano. L'America preferisce un dollaro debole per sostenere le sue esportazioni. Ma una volta di più dovrà rivolgersi alla Cina per collocare i propri buoni del Tesoro. E che non si faccia distrarre: le scaramucce fra Washington e Pechino delle ultime settimane sono più di forma che di sostanza. La vera interdipendenza è finanziaria. Pechino già detiene quasi mille miliardi di dollari di debito americano, per l'esattezza 800 miliardi solo in buoni del Tesoro. Attenzione, stiamo parlando di stock di debito, contratto quando i disavanzi americani erano di 200-300 miliardi di dollari. Con le cifre esplosive che abbiamo visto ieri, la Cina potrebbe aumentare la sua esposizione nei confronti di Washington anche del 50% nei prossimi due o tre anni.

Anche perché Pechino non ha molte alternative per l'investimento dei suoi surplus. Potrà dare qualcosa agli emergenti, ma essendo la Cina avversa al rischio, non ha che due scelte per mantenere il suo investimento, l'Europa o gli Usa. L'Europa non è in una posizione molto diversa da quella americana. Ha forti disavanzi che deve coprire, ma è molto preoccupata dall'idea di un forte finanziamento esterno, soprattutto cinese: anche perché se la Cina acquistasse massicce quantità di euro, finirebbe per rafforzare la nostra valuta. Cosa che da una parte gioverebbe molto alla trasformazione dell'euro in valuta di riserva paritetica al dollaro, obiettivo ambito da molti in Europa. Ma, dall'altra, porterebbe la costernazione fra gli imprenditori e i policy maker che vedrebbero cadere drasticamente la loro competitività.
E veniamo al risultato finale. Il dollaro resta la prima valuta di riserva e dunque l'America accetterà i quattrini cinesi. L'Europa cercherà di dirottare i suoi approvvigionamenti e finirà per guardare ai suoi problemi interni: da questa parte dell'Atlantico, ad esempio, si esclude che la Grecia sarà abbandonata a se stessa. E lo scenario prevalente è che l'Europa rinuncerà, giustamente, a perseguire almeno per ora l'ambizione di far diventare l'euro valuta di riserva, pur di difendere la competitività delle sue esportazioni. Usa e Cina alla fine resteranno legate a doppio filo. Con Washington che dovrà confrontarsi una volta di più con la dipendenza da Pechino.

  CONTINUA ...»

02 febbraio 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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