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IDEE / E Paulson pregò Dio «Salva noi e il dollaro»

di Enrico Brivio

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02 febbraio 2010

«Prevedendo un'altra notte insonne, arrivai all'hotel esausto. Andai nel bagno della stanza e tirai fuori una bottiglietta di sonniferi che mi avevano dato. Sono un cristiano scientista e perciò non prendo medicine, ma quella notte avevo disperato bisogno di riposo. Rimasi sotto la luce abbagliante del bagno a fissare quella piccola pillola nel palmo della mano. Ma poi la gettai nel water con il resto del contenuto della bottiglietta. Avevo un estremo bisogno di una bella notte di riposo. Ma decisi che mi sarei affidato alla preghiera e avrei riposto la mia fiducia in un Potere più alto». A parlare non è un credente qualsiasi, ma l'ex segretario del Tesoro americano, Henry "Hank" Paulson. E racconta, in uno stralcio della sua biografia fresca di stampa «On the Brink» (Sull'orlo) non una notte qualunque, ma la serata di sabato 13 settembre 2008, nel weekend del collasso di Lehman Brothers.

In quelle ore, prima di affidare il suo sonno alla volontà di Dio, Paulson ancora credeva in una soluzione che portasse in salvo la banca d'investimento americana sull'orlo del collasso, grazie all'intervento di Barclays. Ma la via d'uscita che poteva rendere meno severa una crisi che si propagò a macchia d'olio in tutto il mondo sarebbe stata sbarrata, secondo Paulson, non dalla volontà divina ma da Londra. Mancò la compiacenza delle autorità britanniche, che si dimostrarono molto meno benevole del previsto e non concedettero una deroga alla regola di sottoporre al voto degli azionisti la scelta di Barclays di intervenire con un'iniezione di capitali in Lehman. E così il piano di salvataggio orchestrato per salvare la banca d'investimento a un passo dal crack, con l'ausilio anche di Goldman Sachs, Morgan Stanley, Jp Morgan e Citigroup, andò in fumo.

Paulson racconta di aver telefonato personalmente al cancelliere dello Scacchiere, Alistair Darling, ma di aver ottenuto un secco rifiuto «a scaricare sul contribuente inglese i problemi americani». «Gli inglesi ci hanno fregato», sbottò Paulson, dopo aver riattaccato il telefono con Darling.

Anche se Lawrence Mc Donald, un trader di Lehman interpellato da The Telegraph (autore a sua volta del libro A Colossal Failure of Common Sense, Un colossale fallimento del buon senso) racconta un'altra storia: c'era la disponibilità di Darling ad assumersi la responsabilità al 50% del salvataggio da parte di Barclays se il Governo americano si fosse accollato l'altro 50%, ma Paulson rifiutò.

In un'intervista concessa ieri al Financial Times, Paulson preferisce glissare sulla diatriba e sulle responsabilità attribuite alle autorità inglesi, ma difende con vigore il suo operato. «Non tutto quello che poteva andare male è andato male – sottolinea l'uomo che George W. Bush strappò al vertice di Goldman Sachs per porre al timone del Tesoro americano – abbiamo evitato un crollo traumatico del dollaro». Impietosamente, Time magazine, scrisse che «se c'è un volto del disastro finanziario è quello di Paulson». Ma l'ex ministro, in carica dal 3 luglio 2006 al 20 gennaio 2009, si difende dalle bordate ricevute, ricordando che anche Goldman Sachs e Morgan Stanley avrebbero potuto andare a fondo con Washington Mutual e Wachovia. E racconta come i funzionari americani esplorarono la possibilità di fusioni a geometria variabile tra Jp Morgan e Morgan Stanley, Goldman e Citigroup, o Goldman e Wachovia, prima di mettere in atto un piano B, trasformando Morgan Stanley e Goldman Sachs in istituti con accesso a prestiti della banca centrale. Ma anche così, Morgan Stanley non fu salva fino a che il Tesoro americano non assicurò un investimento della giapponese Mitsubishi Ufj. Paulson ripercorre nel suo libro le tre settimane infernali che andarono dal crack di Lehman del 15 settembre a Columbus Day. «Le banche cadevano come mosche», ricorda all'Ft e precisa: «abbiamo avviato le azioni importanti che andavano intraprese per evitare che il sistema crollasse».

Purtroppo, secondo Paulson, ci si trovò anche in una tremenda congiuntura temporale, a causa dell'imminente scadenza elettorale. «Il momento non poteva essere peggiore - fa presente l'ex ministro - visto che si era a pochi mesi o settimane dalle elezioni, perciò ci fu un conflitto tra mercati e politica». Il punto di svolta? A parere dell'ex campione di lotta e di football americano della Barrington High School, nel corpo a corpo con i mercati tutto cambiò quando gli Stati Uniti si unirono agli altri Paesi del G-7, il 10 ottobre 2008, per annunciare ampi interventi per garantire il finanziamento e l'accesso ai capitali da parte delle banche. Tre giorni dopo Paulson fece pressioni su nove grandi istituti finanziari perché accettassero 125 miliardi di aiuti governativi. «Prima noi ci ritrovavamo a rincorrere gli eventi. Sempre di fronte a una situazione più grande di noi». Paulson invoca anche l'attenuante di un quadro senza precedenti e della velocità con cui si dovevano prendere le decisioni. L'ex segretario al Tesoro è sorpreso delle veementi reazioni che seguirono i salvataggi pubblici. Non è dato invece sapere come dormì, alla fine, la notte del 13 settembre 2008. Di certo i mercati passarono ancora molti giorni tormentati e notti agitate.

02 febbraio 2010
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