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EUROPA / L'appuntamento mancato con la strategia di Lisbona

di Enrico Brivio

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2 Gennaio 2010

Benvenuto, Welcome, Bienvenue 2010! Ma anche lo spumante più dolce lascia un retrogusto amaro all'europeista dalla memoria lunga. Quella cifra tonda, tonda evoca, infatti, una sfida perduta. Una scommessa azzardata e un po' rodomontesca, d'accordo, ma pur sempre affascinante: fare dell'Europa in dieci anni l'area più competitiva del mondo.

Ricordate? Correva l'anno 2000 quando a Lisbona in marzo si ritrovarono i leader europei di allora per un summit dai contenuti alla vigilia assai confusi. Il cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder e la strana coppia francese Jacques Chirac-Lionel Jospin, sostenuti dall'allora presidente del Consiglio Massimo D'Alema, chiedevano all'Europa di essere più attenta all'occupazione e al sociale nella fase di debutto dell'euro; mentre Tony Blair e José Maria Aznar insistevano sull'esigenza di ridare più competitività e iniettare innovazione in un'Unione europea incalzata dalla rampante new economy americana. Con l'abilità del più navigato barista, il Consiglio europeo a guida portoghese riuscì a shakerare il tutto e a scodellare un cocktail di indicatori onnicomprensivi.

A Lisbona fu stilato un insieme di indicatori su occupazione, ricerca e competitività finalizzati a rendere l'Europa «la più dinamica area economica del mondo entro il 2010». Come sono andate le cose, lo sappiamo bene.

La sfida di parametri di lungo termine, che funzionò per la moneta unica, si rivelò velleitaria in campi (dal numero di laureati in materie scientifiche agli accessi internet in ogni casa) esposti all'impietoso riscontro della statistica e al confronto con i marosi dei mercati internazionali. Essere i più competitivi al mondo vorrebbe dire anche battere cinesi che lasciano cantieri aperti giorno e notte e indiani che per poche rupie lavorano una settimana. Arrivare dal 61% al 70% di tasso di occupazione generale e al 60% di quello femminile nel giro di un decennio non si sono rivelati obiettivi agevoli specie in aree come il Mezzogiorno o i nuovi paesi dell'Est. Anche se proprio ora l'Economist ci ricorda che ben 6 degli 8 milioni di nuovi posti di lavoro europei, dal 2000 a oggi, sono andati a donne. Ma la ripresa mondiale resta legata alla capacità degli Stati Uniti di risollevare la testa e di Cina e India di innestare il turbo della crescita. Anche con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, l'Europa a 27 fatica a selezionare leader di indiscussa statura internazionale e ad attirare cervelli dai paesi emergenti, sebbene abbia visto rivalutare i propri modelli di welfare e di finanza più prudente dalla rovinosa crisi americana dei subprime. Depositare un brevetto nel Vecchio continente rimane costoso, fondare un'azienda richiede ancora troppi timbri. L'Europa resta imbrigliata da burocrazia, indecisionismo politico e scarsi incentivi all'innovazione. E in questa fase congiunturale delicata, leader europei di diverso colore sembrano faticare ancor di più a varare riforme necessarie per tonificare l'intera economia, se ci sono da colpire i privilegi di alcune categorie di elettori.

Appare perciò legittimo il sogno, accarezzato a Lisbona dieci anni fa, di ricercare una società più competitiva e attenta alla formazione, molto inclusiva e orientata allo sviluppo sostenibile. Anzi, continuare a migliorare la competitività europea è un imperativo ineludibile. E porsi obiettivi remoti può avere aiutato negli ultimi dieci anni a fare progressi tangibili. Ma è già ora di pensare al 2020. Questa volta non con slogan ad effetto, ma rimboccandosi le maniche.

enrico.brivio@ilsole24ore.com

twitter@24europa

2 Gennaio 2010
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