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La bella Italia del Presidente vademecum ideale del 2010

di Stefano Folli

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2 Gennaio 2010
Il presidente Giorgio Napolitano (AP Photo/Enrico Oliverio/Italian Presidency)

L'elemento di novità nel messaggio quirinalizio di quest'anno non è l'appello alle riforme, tema su cui il presidente della Repubblica si è espresso più volte. Non è nemmeno il richiamo agli squilibri sociali o l'invito a non dimenticare il Mezzogiorno: anche su questi argomenti il pensiero di Giorgio Napolitano è noto e si è tradotto nel tempo in pressanti inviti alla classe politica affinché non sia distratta. Il punto di quest'anno è il tono generale del messaggio. Il capo dello stato ha voluto mostrarsi fiducioso, a tratti persino ottimista (con moderazione) sul prossimo futuro. Ecco allora che il profilo dell'Italia da lui abbozzato la notte di San Silvestro ci parla di un paese ricco di energie che ha saputo fronteggiare in modo tutt'altro che scontato una crisi terribile.

L'Italia descritta da Napolitano non è ripiegata su se stessa, non va alla deriva, tanto meno è rassegnata al declino. Al contrario è riuscita a limitare i danni, riducendo l'impatto di un dramma economico e sociale che avrebbe potuto essere più devastante di quanto non sia stato in realtà. Nulla è risolto e i rischi non vanno sottovalutati. Ma la fiducia in se stessi è una risorsa preziosa: gli italiani hanno dimostrato di possederla nel momento in cui hanno rivelato quelle doti di coesione e di resistenza che il presidente ha sottolineato.
Coesione. Capacità di essere uniti davanti alle difficoltà. Napolitano ha vissuto da protagonista un altro momento in cui questi caratteri di fondo sono emersi. Erano gli "anni di piombo" del decennio Settanta e l'Italia civile seppe essere più salda di chi voleva spezzarla. Le forze politiche fecero la loro parte, ma fu proprio il paese profondo che riuscì a mostrarsi all'altezza della sfida.

Ora la cornice è del tutto diversa. Ma la reazione è stata altrettanto sana e determinata, sia pure al prezzo di molta fatica e sofferenza. Napolitano l'altra sera ha disegnato un'Italia che non si piega e che sa essere civilmente unita, nonostante le ingiustizie. E in fondo ha chiesto alla classe politica di essere degna di questa coesione. È qui che s'innesta l'appello per le riforme e per il rinnovamento. Non si tratta di riproporre lo schema antico e falso di un cosiddetto "paese reale" migliore del "paese legale". Al contrario, Napolitano ha lasciato capire una volta di più di essere uomo delle istituzioni e di avere un'idea molto alta del ruolo della politica in periodi tempestosi. Un'idea che comprende in pieno quella funzione di garanzia che la Costituzione assegna al Quirinale e che si esercita in particolare nei momenti di crisi, quando si è esposti al pericolo di lacerazioni, non solo sociali ma istituzionali. È evidente allora che l'unità e la coesione a cui il capo dello stato richiama i partiti non hanno nulla a che vedere con formule politiche d'emergenza.

L'unità nazionale non è un'ipotesi per il governo, come è ovvio. Al contrario, Napolitano considera un patrimonio il gioco democratico fondato sull'alternanza maggioranza-opposizione e ha dato atto al governo di aver fatto il possibile in questi mesi per gestire la crisi economica e sociale. L'unità d'intenti a cui il presidente richiama le forze presenti in parlamento dovrebbe piuttosto lo specchio della coesione che si avverte nel paese. In questa Italia stanca, ma non sfibrata, che ha fatto molto eppure non può fare tutto. E quindi chiede ai suoi rappresentanti politici, di destra e di sinistra, la riforma dello stato, nel pieno rispetto fra istituzioni.

Governo, parlamento, magistratura, presidenza della Repubblica e Corte costituzionale: l'armoniosa convivenza di questi organi e poteri, senza sopraffazioni reciproche, è non solo possibile, ma necessaria. Come è necessaria e urgente la revisione della Carta senza strappi e conflitti distruttivi. Accettando il compromesso, naturalmente, che non è sempre un compromesso inconfessabile o disdicevole.

Discorso "di circostanza", quello di Napolitano, come ha detto qualcuno? Piuttosto discorso intriso di fiducia in un'ora in cui non si può disperdere il filo del buon senso che ha fatto capolino nei giorni scorsi. Il presidente della Repubblica ha il dovere di aggrapparsi alla speranza, per quanto esile sia, e di coltivare la fragile pianticella che potrebbe produrre le riforme. Allo stesso modo ha il dovere di ammonire contro le esasperazioni destinate a inquinare il dibattito e a conservare il sistema dentro la sua ingessatura paralizzante.

I rischi sono enormi ed è facile puntare ancora una volta sul fallimento delle riforme. La questione della giustizia è lì, come un macigno, e non c'è bisogno che Antonio Di Pietro la ricordi con l'aria di ammonire il presidente della Repubblica. La verità è che bisogna tentare. La Lega dice che si deve fare presto. Può aver ragione, a patto che la fretta non porti a soluzioni squilibrate. La prospettiva di condividere le riforme non può essere un alibi per i conservatori. Piuttosto è un invito alla responsabilità di tutti. Con la stessa fiducia che gli italiani hanno avuto in se stessi nei mesi più difficili.

2 Gennaio 2010
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