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ISTITUZIONI / I cervelli giusti per le riforme

di Carlo Trigilia

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2 Gennaio 2010

Le riforme istituzionali - al centro anche del discorso di fine anno del presidente Napolitano - sono invocate a gran voce dalla politica italiana e promesse per il nuovo anno, ma siamo sicuri che questa sia la ricetta esclusiva per il buongoverno? Che il cambiamento delle regole possa aiutare è fuori discussione. Tuttavia, da quando il problema è stato posto con più forza, cioè dalla prima metà degli anni 90, dopo il tracollo del vecchio sistema partitico, interventi di varia natura sono stati realizzati.

Hanno riguardato il sistema elettorale, l'assetto dei governi locali e regionali, i rapporti tra centro e periferia con il rafforzamento dei poteri locali, fino alla recente riforma federalista. Eppure, sembra sempre che le vere riforme - quelle più efficaci e decisive - debbano ancora venire, in una continua corsa al rilancio. A questo punto è la "sindrome delle riforme istituzionali" che dovrebbe invece suscitare qualche sospetto e indurre più cautela, cioè l'idea che la "buona politica" discenda automaticamente ed esclusivamente dal cambiamento delle regole (elettorali e istituzionali).

Questa sindrome esprime la debolezza della politica, ma diffondendosi rischia di accrescerla, alimentando la deresponsabilizzazione delle forze politiche. In altre parole, i partiti continuano a cercare fuori (nel cambiamento delle regole) delle soluzioni a problemi che essi stessi contribuiscono a creare in misura crescente, e che dipendono largamente dalla loro azione. Quali sono questi problemi? Quelli attinenti alla selezione e valutazione di una classe politica decentemente preparata e orientata all'interesse pubblico.

Se confrontiamo la situazione italiana con quella di altri grandi paesi europei, scopriamo due fenomeni peculiari che caratterizzano il nostro paese: la minore efficienza delle politiche e la maggiore diffusione della corruzione, da un lato, e l'estrema debolezza dei processi di selezione della classe politica (nazionale e locale) operati dai partiti, dall'altro. La sindrome delle riforme istituzionali cerca una soluzione ai problemi della scarsa efficienza delle politiche e della diffusa corruzione esclusivamente nel cambiamento delle regole: quelle elettorali, che devono aumentare la concorrenza tra i candidati; quelle istituzionali, che devono rafforzare gli esecutivi per sottrarre i vertici alla pressione d'interessi particolari; o quelle dei rapporti tra centro e periferia, che devono responsabilizzare i governanti locali e regionali con il federalismo fiscale.

L'ingegneria istituzionale trascura invece del tutto i processi di selezione della classe politica e i loro effetti sulla politica. Ma così facendo, non solo contribuisce a delegittimare ulteriormente il ruolo dei partiti, ma li deresponsabilizza, non aiutandoli a fare scelte difficili che migliorino i processi di selezione della classe politica.

Che cosa hanno in comune gli interventi di riforma istituzionale? L'idea che il buongoverno discenda unicamente dalle sanzioni elettorali. In fondo, la maggiore concorrenza a livello elettorale, l'elezione diretta o il federalismo fiscale tendono a personalizzare il rapporto tra eletti e elettori per consentire di punire più facilmente chi non si comporta bene. Questa prospettiva non considera però che il politico che opera decentemente per l'interesse pubblico non risponde solo a sanzioni esterne, ma è condizionato da un codice etico interno, che si forma nel tempo ed è plasmato da strutture di selezione adeguate offerte dai partiti.

In questo senso, la funzione dei partiti resta essenziale. Nei paesi democratici avanzati essi hanno certo perso le funzioni d'integrazione sociale e di partecipazione politica che avevano un tempo, ma continuano a svolgere il compito di selezionare quel personale politico di «qualità sufficientemente elevata» di cui parlava Schumpeter, essenziale per l'efficienza delle istituzioni democratiche.

Aumentare le sanzioni elettorali e accrescere l'autonomia degli esecutivi senza migliorare la qualità del personale politico può avere evidenti effetti perversi. Può dare più forza ai soggetti di bassa qualità, più inclini all'opportunismo a scapito degli interessi collettivi. Tanto più se - come nel nostro paese - la cultura civica è debole e quindi le capacità di valutazione degli elettori sono limitate (come ha ricordato Piero Ignazi sul Sole 24 Ore del 29 dicembre). Gli elettori devono essere «di un livello intellettuale e morale abbastanza elevato per resistere alle lusinghe di truffatori e maneggioni», notava ancora Schumpeter a proposito delle condizioni di successo delle democrazie.

Tutto ciò non implica che occorra abbandonare la strada delle riforme istituzionali, ma suggerisce un orientamento più cauto che non trascuri gravemente, come accade nella nostra discussione pubblica, i processi di selezione della classe politica. In fondo, la differenza principale tra l'Italia e i grandi paesi europei è che questi ultimi dispongono ancora di partiti - a destra come a sinistra - in grado di svolgere decentemente questo compito.

trigilia@unifi.it

2 Gennaio 2010
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