Il giudizio di John Kenneth Galbraith – ricordato da Mario Deaglio nell'accattivante prefazione all'edizione italiana dell'ultimo libro scritto dall'economista americano L'economia della truffa – è di disarmante efficacia: «L'unica funzione delle previsioni economiche è di far sembrare rispettabile l'astrologia».
E infatti, fra le tante truffe in campo economico che Galbraith ricorda, quella delle previsioni è una delle più significative e rilevanti. Insieme al mito del mercato, dominato e controllato dai manager e dalle grandi imprese, all'illusione della separazione tra pubblico e privato, all'inganno di considerare il consumatore come sovrano e libero di scegliere.
Scritto come summa delle esperienze e delle delusioni di una vita di economista, questo libro nasce nei primi anni Duemila, sotto l'influenza dell'attentato alle Torri gemelle e della crisi finanziaria seguita alla bolla di Internet: raccoglie in fondo l'amarezza di chi ha cercato di divulgare i fondamentali dell'economia e si è trovato sempre più spiazzato da una comunicazione, soprattutto in campo finanziario, basata sugli slogan che trasformano luoghi comuni e mezze verità in certezze assolute.
Tutto il sistema sarebbe basato su di un'enorme truffa: quella di non tener conto «dell'impossibilità di prevedere le performance future dell'economia e il momento in cui si passa dall'espansione alla recessione e viceversa». Per essere credibili, le previsioni dovrebbero infatti tener conto di tutta una serie di variabili che sono di complessa misurazione e «che possono combinarsi in modi praticamente infiniti», ma che non consentono comunque di raggiungere nessuna certezza dato che «la somma di più ignoti è comunque ignota».
Con queste parole Galbraith getta un'ombra su tutta le teorie classiche dell'economia, basate sulla prevalenza delle scelte razionali e quindi sulla possibilità di valutare con sufficiente approssimazione le tendenze e gli andamenti dei mercati.
Forse anche per queste posizioni drastiche Galbraith non è stato mai ben visto dalla corporazione degli economisti, non ha mai vinto il premio Nobel, non ha mai elaborato teorie economiche passate alla storia con il suo nome. E non sorprende che non sia stato del tutto gradito questo professore che pur avendo insegnato a Princeton, Cambridge e Harvad, predicava che «il mondo finanziario ospita una comunità numerosa, attiva e ben pagata che vive un'irrimediabile, ma apparentemente sofisticata, ignoranza». Giudizi non certo ideali per provocare simpatie. Ma questo non toglie che le analisi, come quella sul "grande crollo" del '29 o sulla "società opulenta" restino dei lucidissimi esempi d'interpretazione dell'evoluzione economica.
Quest'ultima opera ha tutta l'aria di chi voglia togliersi parecchi sassolini dalle scarpe, ma ha il grande pregio di costituire una provocatoria chiave di lettura per giudicare, con una buona dose di dissacrazione, anche la drammatica crisi finanziaria che stiamo ancora vivendo.
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