«Un tremendo risveglio dalle speranze di un anno fa... l'amministrazione prevede alta disoccupazione per anni... stiamo assistendo a un terribile fallimento nazionale». Così il Nobel Paul Krugman, faro dei progressisti americani in economia, scorticava il bilancio 2011 della Casa Bianca appena presentato. Non era un attacco a Obama, ma la constatazione che ai sogni segue la realtà.

I progressisti americani amano ancora Barack Obama? Da molti mesi è un rapporto difficile. Già nell'inverno scorso c'erano stati malumori, legati prima alla scelta della squadra economica, che riportava in auge gli uomini di Bill Clinton e del suo ex ministro del Tesoro, Bob Rubin, mai amati a sinistra perché espressione dei corporate democrats e amici più di Wall Street che di Main Street. Gli americani si erano rivolti a Obama perché «volevano disperatamente credere in qualcuno - scriveva a febbraio sul New Yok Times Maureen Dowd - ma il debutto li ha lasciati scettici».

A marzo 2009, scrivendo sul Washington Post, uno dei più noti esperti di storia finanziaria e firma del giornalismo progressista americano, William Greider, alzava il tiro. «L'approccio di Obama finora è stato quello di rinvigorire i nomi famosi di Wall Street, e i suoi consiglieri economici gli dicono che questo è l'imperativo "responsabile", e non importa se può offendere il popolo bue. Obama evidentemente concorda. E non sembra accorgersi che i tecnocrati ciechi lo stanno conducendo in una strada senza sbocco».

C'erano a maggio alcuni passaggi legislativi che facevano rizzare le orecchie a sinistra, quello sulle carte di credito e quello sugli aiuti all'immobiliare. Disattendevano entrambi promesse esplicite di Obama. Un limite ai tassi usurari da parte delle banche, che non arrivava in una legge, per il resto buona, sulle carte di credito. E la facoltà per i giudici fallimentari di rivedere entità, durata e rate del mutuo, alla luce dei valori immobiliari crollati.
Sull'economia l'americano medio si è fatto alcune idee. La crisi è colpa soprattutto dei grandi banchieri di Wall Street e di un Congresso che li ha aiutati. Il costo è stato addossato al contribuente, è la convinzione, che lega le colpe di Wall Street alla disoccupazione abnorme e tenace. Obama si è dimostrato troppo amico di Wall Street, e troppo poco dell'americano medio, è la conclusione. C'è una quota di populismo, ma si tratta comunque di una risposta a gravi errori commessi dalle élite.

Il terreno era quindi pronto quando a giugno 2009 la Casa Bianca e il Tesoro presentavano le proposte di riforma finanziaria. «La falsa riforma finanziaria di Obama» titolava The Nation, la "bandiera della sinistra" come si autodefinisce il più vecchio settimanale americano. Sotto quel titolo, l'incipit di Greider era inequivocabile: «La cosa più fastidiosa nell'appello di Barack Obama per una riforma finanziaria è il modo con cui il presidente ha falsificato la nostra situazione. Ha cercato di far apparire come se tutti fossero implicati nel disastro finanziario e quindi alla fine nessuno fosse colpevole». Joe Nocera, firma finanziaria di punta del progressista New York Times, un giornale che da 50 anni la destra americana invita a boicottare, riteneva che nelle proposte del governo c'era «solo un lontano profumo di Roosevelt». Come dire che a fronte di quelle del '33-35 erano acqua fresca.

Il distacco fra la sinistra democratica e il presidente, non irreversibile ma serio, maturava nel corso dell'estate e probabilmente lo scritto che meglio coglie il passaggio è di Frank Rich, commentatore del New York Times, e anche qui il titolo è inequivocabile: «Ma Obama ci starà per caso prendendo in giro?». Scriveva Rich: «La paura più grossa è che Obama possa essere solo un altro amico del big business, che prende in giro gli elettori più o meno come fanno i repubblicani quando dicono di essere grandi amici del common guy». Arianna Huffington dell'Huffington Post, il giornale online che si è speso molto per Obama nel 2008, non era da meno. «Incredibilmente ingenuo», era il suo giudizio dopo l'incontro di Obama con il mondo della finanza, alla Federal Hall di New York nel settembre 2009. L'elenco potrebbe essere lungo, non dimenticando gli articoli bisettimanali sul Times e il blog di Krugman, e i numerosi interventi e il libro appena uscito, Freefall, cioè il capitombolo, dell'ancor più progressista Nobel Joseph Stiglitz.

Si è arrivati così al risultato del Massachusetts, quando a metà gennaio 2010 lo stato più liberal ha consegnato a un repubblicano il seggio che fu dei Kennedy. Messaggio chiarissimo. Sarà stata una sorpresa, ma non del tutto, per chi aveva seguito questi umori. E poi alla ricomparsa di Paul Volcker a fianco del presidente, dopo oltre un anno di oblio. Quello che Volcker chiede piace ai progressisti, perché impedirebbe ad alcune grandi banche, le protagoniste della crisi, di ripetere gli errori. Ma, si chiede il sito di Simon Johnson, ex capo economista del Fondo monetario e non particolarmente progressista ma molto letto a sinistra, «quello di voler adottare la Volcker rule è forse qualcosa di più di uno slogan di marketing?». Il popolo progressista spera, e aspetta, ma ha da tempo ritirato la cambiale in bianco.