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DOPO COPENHAGEN / Europa e Usa a nozze sulla CO2

di Carlo Bastasin

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03 gennaio 2010

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Il ruolo dei «Basic»
Almeno da luglio nessuno, si osserva a Washington, si poteva aspettare che da Copenhagen uscisse un Trattato legalmente vincolante. Per tre ragioni: la prima è che Europa, Giappone e Australia non intendono accettare una continuazione del protocollo di Kyoto a meno che anche gli Usa non s'impegnino a rispettarlo legalmente. La seconda ragione è che gli Usa sono disponibili a impegni legali, ma non nella forma di Kyoto che applica l'obbligo di rispetto degli obiettivi solo ai paesi sviluppati. Obama sa che non c'è tuttora sostegno politico in America per ratificare accordi in cui Usa e Cina hanno status legali diversi (per gli Usa gli impegni sarebbero vincolanti e per la Cina volontari), mentre è d'accordo nel distinguere gli impegni dei singoli paesi sulla base del diverso livello di sviluppo economico. Infine o Basic, pur disponibili a impegni volontari non vogliono alcun vincolo legale che li equipari ai paesi sviluppati e preferiscono di gran lunga rinunciare a qualsiasi accordo internazionale.

Durante l'intera conferenza, i Basic sono riusciti a screditare con violenza la presidenza danese con l'obiettivo di rinviare ogni tentativo dei danesi di portare il negoziato al livello politico più alto dei capi di governo, in modo da aggirare il problema della natura legale dell'accordo legittimandolo di fatto con la firma dei vertici di tutti i paesi chiave. Secondo un ministro tedesco, la Cina è arrivata a utilizzare il premier sudanese Lumumba Di-Aping, il cui paese dipende dagli aiuti finanziari di Pechino, per attaccare le iniziative danesi. A Washington si sospetta Pechino di aver fatto filtrare documenti danesi che dovevano restare segreti accrescendo l'imbarazzo della presidenza.

In un cruciale meeting a cui hanno partecipato 30 leader tra cui Obama, Merkel, Sarkozy, Brown, Medvedev, Hatoyama, l'australiano Rudd, l'etiope Meles Zenawi (in rappresentanza del gruppo africano), il premier del Bangladesh e quello di Grenada (per le isole dell'Aosis), i cinesi e i loro alleati avevano inviato solo rappresentanti di secondo rango. Lo scontro tra il viceministro degli Esteri cinese He Yafei e Obama era stato tale da richiedere una revisione ex post del verbale commissionata dallo stesso premier Wen Jiabao. Il delegato cinese si era messo a urlare contro Obama e contro Sarkozy, quest'ultimo è parso vicino a passare a vie di fatto. Ma il tabù dell'insulto al presidente Obama in una fase negoziale era ormai stato infranto.
Obama e gli europei hanno deciso allora di incontrarsi nuovamente e sarebbe stato a quel punto che - secondo un consigliere di Obama - Merkel, Sarkozy e Brown avrebbero delegato il presidente americano a tentare un ultimo accordo bilaterale con Wen ed eventualmente con Lula o Singh. Durante la sua recente visita a Pechino, Obama si era convinto di aver costruito un rapporto molto positivo con Wen, inoltre aveva appena offerto a Singh una grandiosa cerimonia per la prima visita ufficiale alla Casa Bianca, ma l'incredibile episodio di venerdì sera, con l'incontro segreto e i tentativi di dissimulazione, ha gettato una nuova luce sulla trasparenza dei rapporti tra paesi sviluppati e le nuove potenze.

Obama e gli europei
A Berlino negano decisamente che fosse stato affidato a Obama un mandato a negoziare per conto degli europei. Come testimonierebbe il fatto che i leader europei non sono stati informati dell'accordo dal presidente americano nemmeno dopo che l'intesa era stata trovata. «Così ci era sembrato di capire», replica la fonte di Washington. Ma un consigliere della cancelliera Merkel definisce addirittura vergognoso il comportamento cinese. Non solo il presidente Hu Jintao è rimasto a Pechino, ma Wen si è mostrato una volta sola nel pubblico dei delegati, in occasione del discorso di Obama al plenum. Per il resto ha inviato delegati di secondo livello, chiudendo con un funzionario di livello ancor più basso, comicamente definito "ministro delle miniere" dalla delegazione americana.

Durante il vertice, He Yafei ha costretto trenta capi di governo ad attendere che lui telefonasse a Wen per prendere ogni decisione. Merkel e Sarkozy hanno protestato per questa procedura e alla fine Obama ha deciso: «basta, non voglio più prestarmi a questo pasticcio, parlo solo con Wen». Ma per quasi tutto il suo soggiorno a Copenhagen, Wen è rimasto nel suo albergo, distante dal Bella Center dove si svolgeva la conferenza, costringendo gli altri capi di governo, compreso Obama, a incontrarlo nel suo hotel. A Berlino si accusano i cinesi di manipolazione dei 130 paesi del G77, molti dei quali ansiosi di sviluppare rapporti economici con Pechino. Ma secondo gli americani il risultato cinese è stato opposto. Molti paesi poveri sono infatti molto vulnerabili dai rischi climatici e temono l'ostruzionismo dei cinesi, che hanno visto opporsi perfino agli aiuti finanziari promessi al G77 dai paesi più sviluppati.

L'intero svolgimento della Conferenza ha gettato una luce triste sullo stato dei negoziati multilaterali. Ma ne ha gettato una ancora più inquietante sul ruolo che I cinesi sono in grado di giocare se Europa e Usa non formeranno una massa critica prima che gli equilibri economici e politici si spostino decisamente a favore dell'Est asiatico. Anche per l'Europa il fallimento di Copenhagen rappresenta una lezione severa. Gli europei si sono presentati dietro una posizione di superiorità morale, sottovalutando le difficoltà del negoziato e ritenendo di poter influenzare Usa e Cina, i due grandi paesi inquinatori, con la sola forza del proprio esempio e dei propri buoni propositi. A due giorni dal fallimento, il presidente della Commissione, José Manuel Barroso, ancora invitava Pechino e Washington a firmare un trattato, come se il negoziato non si fosse da tempo arenato in un'impasse strategico. L'invito è parso ancor più patetico che velleitario. A rendere inefficace il ruolo europeo non è stata la divisione tra i paesi, bensì l'incapacità di pensare in termini d'influenza strategica, nonché la mancanza di responsabilità politica di fronte a un fallimento che ogni leader nazionale può scaricare sull'Europa anziché su se stesso.

03 gennaio 2010
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