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Soldati e ambasciatori d'Italia

di Piero Ignazi

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3 settembre 2009

L'Italia è attualmente impegnata in sei missioni militari internazionali: due impiegano pochissime unità (per la formazione delle forze di polizia in Iraq e per assistenza umanitaria in Ciad), altre due un numero ormai assai ridotto (la Kfor in Kosovo e l'Althea in Bosnia-Erzegovina, strascichi delle guerre jugoslave) mentre quasi tutto l'impegno si concentra nei due teatri più pericolosi, il Libano e l'Afghanistan.

A queste missioni vanno aggiunte quelle "di osservazione" che riguardano la presenza di alcuni militari, spesso ufficiali, preposti al controllo e alla sorveglianza di accordi in aree di crisi. In totale sono operativi circa 7mila uomini, un numero che colloca il nostro paese tra i più attivi sul fronte delle missioni internazionali di peace-keeping e peace-enforcement. Se poi si pensa che in alcuni momenti l'esercito italiano è riuscito a dislocare all'estero fino a 10mila effettivi, si ha un quadro ancor più vivido del rilievo internazionale di tale attività.

Questa proiezione esterna si è sempre ispirata, con una sola eccezione di rilievo, a un criterio preciso: partecipare a missioni decise e attuate in un contesto multilaterale, sostenuto e approvato dalle istituzioni internazionali. La rottura più significativa con questo approccio si ebbe in occasione dell'adesione alla coalizione dei volenterosi promossa dall'amministrazione Bush per rovesciare il regime di Saddam Hussein. Non a caso quell'iniziativa venne fortemente osteggiata dall'opinione pubblica, massicciamente contraria alla guerra e alla nostra partecipazione a quel conflitto.

Anche le altre missioni militari all'estero hanno comunque suscitato opposizioni, sia di principio che squisitamente politiche. Sul primo versante sono state le componenti pacifiste della sinistra radicale a sventolare la bandiera del rifiuto ideologico - "senza se e senza ma" - alla presenza dell'esercito italiano in teatri di guerra, e ancor più in operazioni belliche.

Le altre forze politiche hanno valutato di volta in volta l'opportunità d'inviare le nostre truppe sulla base di considerazioni più "strumentali". Ad esempio, l'iniziale opposizione del centro-destra alla missione Unifil in Libano nel 2006, promossa dall'Onu su sollecitazione italiana - peraltro uno dei successi più rilevanti della politica estera italiana degli ultimi anni - aveva giustificazioni di politica interna più che di strategia internazionale.

A parte questi sussulti, negli ultimi anni è comunque cresciuta la consapevolezza che le missioni militari e di polizia all'estero costituiscono uno dei migliori biglietti da visita dell'Italia nel contesto internazionale. La qualità dei nostri contingenti sia nel lavoro di formazione delle forze di sicurezza locali sia nel lavoro di "pacificazione" e di state building sono universalmente riconosciute. E questo è dovuto all'intelligente adozione di un approccio che, in sintonia con le linee guida dell'Unione Europea, punta alla costruzione di una rete di rapporti con la società civile per arrivare a una messa in sicurezza del territorio.

Il lungo lavorio di contatto con capivillaggio e notabili locali, piuttosto che le parate di carri in assetto di guerra per le strade in missioni spesso inutili o, ancor peggio i bombardamenti alla cieca, ha fatto scuola presso gli altri comandi. Le strategie adottate dal generale Petraeus in Iraq negli ultimi anni - «securing and serving the population and living among the people to secure them» - seguono il canovaccio italiano. E anche in Afghanistan la componente americana, dopo anni d'interventi muscolari con alti danni collaterali, incomincia a porsi il problema della conquista "dei cuori e delle menti" della popolazione.
In sostanza l'approccio italiano - ed europeo - della creazione d'un retroterra di consenso e fiducia nella popolazione prima di cercare il confronto diretto con un nemico, peraltro evanescente, alla fine ha convinto tutti.

Grazie a ciò la presenza militare italiana nel mondo costituisce ora un eccellente soft power nazionale, una risorsa importante della politica estera: una delle poche a nostra disposizione, da spendere bene nelle relazioni internazionali.
Uscite improvvide, come quella della Lega che ha invocato il ritiro dall'Afghanistan, vanificano gli sforzi e i meriti dei soldati italiani e indeboliscono la nostra già gracile credibilità internazionale. Al contrario, il governo dovrebbe fare ogni sforzo per incrementare ulteriormente la nostra presenza militare all'estero.

3 settembre 2009
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