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UTILI AI LAVORATORI, PERCHÉ NO / Stare sulla stessa barca non ha mai funzionato

di Roberto Perotti

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4 settembre 2009

La Cgil ha ragione: la compartecipazione agli utili rischia di essere un cattivo affare per i lavoratori. Un individuo investe già pesantemente il proprio capitale umano nell'azienda in cui lavora; il vecchio adagio «non mettere tutte le uova nello stesso paniere» suggerirebbe che l'ultimo posto dove investire il capitale finanziario dovrebbe essere la stessa azienda. Obbligare poi i lavoratori a detenere le azioni per quattro anni (con la motivazione di evitare gli onnipresenti «comportamenti speculativi») è forse un buon affare per l'azienda, pessimo per i lavoratori: se l'azienda va male, è come legarli mani e piedi a una barca che affonda. Ne sanno qualcosa i lavoratori della Enron, che avevano investito i propri risparmi pensionistici quasi esclusivamente in azioni Enron: quando fallì l'azienda persero la pensione oltre al posto di lavoro.

Leggermente diversa è una partecipazione agli utili sotto forma di una parte di remunerazione legata ai profitti aziendali. Ma in questa proposta è insito un equivoco di fondo fra le parti. Per lavoratori e sindacati, questa parte variabile è come il bonus dei banchieri d'investimento: la remunerazione aumenta quando i profitti sono alti, ma non scende mai sotto un certo livello quando i profitti sono bassi o negativi. In altre parole, nei fatti questo diventa uno schema per aumentare la remunerazione attuale: ovviamente nessun imprenditore sarebbe disposto a sottoscriverlo. Ed è anche il motivo per cui non servirà per rendere l'occupazione più stabile in tempi di recessione, favorendo, come sostengono alcuni, una flessibilità verso il basso dei salari. L'abbiamo sentito tante volte durante questa recessione: «L'azienda va male a causa delle strategie sbagliate del management o per l'avidità della proprietà, noi non vogliamo andarci di mezzo».

E qui veniamo al secondo punto: è molto difficile separare nettamente compartecipazione e cogestione. La compartecipazione senza cogestione si basa su un'illusione di fondo: il management si aspetta che i lavoratori accettino senza batter ciglio qualsiasi decisione che ha effetti sulla loro remunerazione. Prima o poi, la conseguenza inevitabile è una qualche forma di cogestione. Ma nessuna forma di cogestione funziona in pratica. La cogestione di facciata, quale la presenza di sindacalisti in qualche consiglio con un ruolo consultivo, serve solo a intralciare il funzionamento dell'azienda e a delegittimare i sindacati agli occhi dei lavoratori. La cogestione sostanziale è invece la ricetta del disastro perfetto, e comporterebbe anche un grosso passo indietro al tentativo di introdurre il principio del merito e della capacità anche nelle nostre aziende: i sindacati sono semplicemente impossibilitati a nominare rappresentanti con esperienza di conduzione d'azienda (se l'avessero, non sarebbero sindacalisti).

I sostenitori della compartecipazione probabilmente ribattono che il suo scopo principale è però di motivare e incentivare i lavoratori legandone le sorti a quelle dell'azienda, e di ridurre i conflitti sociali. Il povero Marx si sta rivoltando nella tomba. La partecipazione agli utili è una manifestazione ricorrente di un'idea che percorre come un fiume carsico il nostro pensiero economico e politico, e che riemerge ogni tanto, soprattutto in tempi di crisi: la tentazione di ricorrere al "siamo tutti nella stessa barca" per ridurre i conflitti e uscire dalla crisi. Nessun politico, economista o intellettuale italiano oserebbe elogiare il corporativismo fascista (che non a caso seguì al biennio rosso, una stagione di grande crisi occupazionale e di tremendi conflitti sociali): ma la compartecipazione agli utili ha una radice filosofica comune. Non funzionò allora: i conflitti sociali non si manifestarono non perché fossero stati eliminati alla radice, ma solo perché ci pensò la polizia segreta a tenere a bada i lavoratori delle città del Nord. E non funzionerebbe oggi, sebbene ovviamente venga proposta in forma molto più annacquata.

Infine, la partecipazione agli utili non può funzionare perché, se attuata in modo sostanziale, comporta una differenziazione tra lavoratori che risulterà inaccettabile nella società italiana: il lavoratore della ditta di bulloni che beneficia di un forte aumento della domanda avrà una remunerazione superiore a un identico individuo che ha la sfortuna di lavorare in una ditta di cioccolato la cui domanda è scesa. Tutti sono contro le gabbie salariali perché discriminerebbero tra lavoratori solo sulla base della loro residenza (dimenticando che anche la produttività è diversa): ma l'effetto di una partecipazione agli utili seriamente attuata sarebbe di diversificare il trattamento economico ancor più capillarmente delle gabbie salariali. Chi è disposto ad accettarlo?

4 settembre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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