Per anni il governo iraniano ha gestito il negoziato sulla questione nucleare utilizzando la lentezza come strategia, non soltanto per guadagnare tempo ma probabilmente anche per far avanzare le ricerche nel settore. Nelle ultime settimane si osserva un totale rovesciamento della strategia: il governo iraniano preme per accelerare il processo di negoziato, mentre americani ed europei utilizzano la lentezza come nuova strategia. Per quale motivo?

È evidente che pesa la questione delle elezioni del 12 giugno scorso, elezioni contestate che hanno delegittimato il governo iraniano; per la parte occidentale accelerare il processo del negoziato significherebbe, se si trovasse un accordo, legittimare l'attuale governo. Inoltre gli Usa prendono tempo non solo perché la situazione è fluida, ma anche perché si ha la consapevolezza che in Iran le cose non saranno più come prima. Alcuni esperti parlano di mesi, forse di un anno, come termine entro il quale assisteremo a un radicale cambiamento della situazione in quel paese.

In effetti il contesto che si è venuto a creare, oltre ad avere sempre in primo piano la questione del voto contestato, pone in evidenza la crisi, per non dire la fine, del modello politico della Wilayat al Faqiyah; si tratta di un modello che ha reso l'Iran una specie di teocrazia in cui il potere politico si trova di fatto sotto il controllo dei religiosi teologi (fuqaha). Nell'ambito dell'islam sciita quel modello politico rappresentava una pura invenzione, frutto di una sorta di terzomondismo e di una visione ideologica della religione; non faceva parte del Dna dello sciismo iraniano perché in esso, a differenza dell'islam sunnita, sono sempre esistiti da una parte il potere politico e temporale e dall'altra il potere religioso, che si esprime attraverso un clero autonomo e istituzioni religiose proprie.

I manifestanti che dal 12 giugno escono nelle strade di Teheran, se non contestano la propria identità musulmana, contestano però quel modello politico che, a partire dalla rivoluzione khomeinista, interseca potere religioso e potere temporale. E guardano a un altro tipo d'islam sciita, quello di tipo pietista, che tende a non confondersi con la sfera mondana; è lo sciismo che attualmente, in parte, si esprime in Iraq attraverso l'ayatollah Al-Sistani, che non interviene mai nella sfera pubblica, contrariamente a quanto fa l'ayatollah Khamenei.

L'Iran sta entrando così in un nuovo ciclo della sua storia: i manifestanti del 12 giugno non sono solo ventenni, ma appartengono a classi d'età molto diverse; e non ci sono più soltanto intellettuali, quelli che all'epoca di Khomeini erano affascinati dall'ideologia rivoluzionaria khomeinista. Si tratta di persone che vivono la crisi economica, come avviene in tutto il resto del mondo; persone che si connettono a internet e si accorgono che la battaglia per la libertà non ha frontiere.

Le conseguenze di questo nuovo quadro saranno d'importanza capitale anche per la situazione in Medio Oriente e per i rapporti tra Iran e Israele. E probabilmente nei prossimi anni la crisi del modello politico iraniano, che ha indirettamente influenzato il fondamentalismo islamico di matrice sunnita, si propagherà anche negli altri paesi musulmani: semplicemente perché per la questione democratica non sussiste frontiera tra islam sunnita e islam sciita. Perciò, nell'attuale lentezza, tutti attendono il cambiamento che avverrà in Iran.