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America alla deriva tra Atlantico e Pacifico

di Carlo Bastasin

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05 gennaio 2010

Il 2009 è stato un anno troppo denso di eventi - dalla crisi globale alle nuove presidenze in America ed Europa - per poterne già leggere la dinamica. Ma se c'è stato un filo conduttore, dal G20 a Copenaghen, è stato lo spostamento di potere da Ovest a Est e il nuovo ruolo della Cina.

Nell'aprile del 2009 la Cina si era presentata al vertice del G20 a Pittsburgh con eccellenti credenziali: il suo contributo al superamento della crisi globale era stato più rapido e, in quel momento, più ampio rispetto a quello di tutti i paesi del vecchio G7. Eppure durante l'intera trattativa l'unico intervento della delegazione di Pechino era inteso a togliere Hong Kong dalla lista dei paradisi fiscali. Nei mesi successivi, la voce di Pechino è cresciuta enormemente di ambizione. Mese dopo mese è stata criticata la politica valutaria americana (proponendo la sostituzione del dollaro come valuta mondiale), la politica fiscale, quella monetaria e quella commerciale. A Copenaghen infine i cinesi hanno bloccato il negoziato sul clima mettendo in imbarazzo europei ed americani.

In privato un delegato americano ha definito deprimente la visita di novembre del presidente Obama a Pechino. La missione successiva della "troika" europea è stata (se possibile) ancora meno produttiva. Al ritorno a Washington, il consigliere economico del presidente, Larry Summers, ha spazzato dal tavolo l'ipotesi di un G2 (Usa e Cina) a guida del mondo. Si tratta di un'ipotesi «problematica sotto ogni aspetto». Non avrebbe senso «nemmeno dal punto di vista della realpolitik»: eleverebbe la Cina a uno status che non si è ancora guadagnata e danneggerebbe i rapporti con gli altri paesi amici. È stato a quel punto che, almeno per i temi di politica valutaria, è stata sondata l'ipotesi di un G4 (Usa, Europa, Cina e Giappone), ma senza progressi finora.

A novembre il presidente Obama ha comunque aderito alla partnership transpacifica e lanciato la conferenza di Honolulu del 2011 che sancirà lo spostamento del baricentro mondiale dall'Atlantico al Pacifico. Ma di ritorno da Copenaghen alla Casa Bianca si è discusso se il rapporto con i cinesi non dovesse essere più netto, fino a che è ancora possibile.

Nei primi giorni del 2010 la Casa Bianca ha proposto nuove tasse sull'import di acciaio dalla Cina.
A inizio 2010 il bilancio è amaro: l'illusione che la crescita del nuovo mondo vada proporzionalmente a beneficio del vecchio si è appannata. Il decennio che si è chiuso è il primo in cui la ricchezza di Europa e Usa misurata dagli indici finanziari è calata rispetto all'inizio, in media di oltre un quarto in termini nominali. Nello stesso periodo la Borsa cinese è aumentata del 140%, quella indiana del 200%, quella brasiliana del 300% e quella russa dell'800 per cento. Nel decennio che è finito il mondo sviluppato è cresciuto in media del 2,1% contro un ritmo doppio dei paesi emergenti e quadruplo della Cina. Nel periodo 2011-2014 secondo il Fondo monetario il divario aumenterà ancora. Secondo alcuni economisti asiatici a Washington l'Est crescerà ancora a un ritmo triplo dell'Ovest.

L'Occidente affidava la propria influenza sull'Est a un modello finanziario che è apparso indebolito dalla propria intrinseca instabilità. La critica agli oligarchi che controllano i paesi emergenti si è ritorta contro Wall Street. Le denunce della mancanza di democrazia in Cina sono state ridimensionate dall'influenza di Pechino sul debito pubblico americano dal cui finanziamento dipende la stessa leadership strategica e militare di Washington.

L'America non ha ancora individuato la strategia per governare il mondo con la Cina. Né lo ha individuato la Cina la cui leadership ha suprema cura delle priorità nazionali. Le dimensioni del paese che a Ovest lo rendono temibile a Est lo rendono fragile. Le sue banche hanno capitalizzazioni che imbarazzano quelle occidentali, ma i regolatori cinesi vi vedono crescere «rischi di ogni sorta», il surplus commerciale è per il 68% dovuto a imprese con azionariato straniero, mentre le imprese statali sono in deficit, hanno speculato sugli immobili e sono esposte a rischi rilevanti. La risposta alla crisi ha salvato l'economia ma ha anche creato un eccesso di capacità produttiva. Gli investimenti cinesi all'estero si allargano tra le autarchie africane ma continuano a essere ostacolati a Ovest dai timori della comunità internazionale. Ci sono scuse in abbondanza per spiegare le forme enigmatiche ed elusive con cui Pechino esercita il suo potere sulla scena mondiale.

Ma come ha dimostrato proprio il vertice di Copenhagen, anche in America le priorità nazionali dettano l'agenda internazionale. Economia, clima, salute, sicurezza: le sfide sono tutte diventate globali, ma le risposte sono rivolte al consenso interno. Obama non avrebbe mai firmato un accordo sul clima che lo avesse messo in difficoltà con il Congresso e così ha fatto. Dal Fondo monetario al G-20, da Doha a Copenhagen, la crisi non ha ancora insegnato a governare attraverso maggiore trasparenza: più informazioni ai cittadini e più trasparenza negli impegni pubblici. In due parole: più democrazia. Le forme di pressione sono ancora le stesse armi del Novecento: influenza militare, tasse sul commercio, rispetto delle sovranità nazionali. Un mondo più adatto al Politburo di Pechino che alle società aperte.

05 gennaio 2010
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