Sarà capitato a tutti i maestri della carta stampata, almeno una volta nella vita, di provare invidia per il coraggioso reporter che con un unico, fatale scatto di macchina fotografica è riuscito a rappresentare quello che quindicimila battute non riuscirebbero a comunicare. Mani che si stringono per sancire la storia, muri che cadono, innamorati che si baciano, città distrutte: immagini che fanno parte della memoria collettiva e, come canzoni nazionalpopolari e leggende familiari, entrano a far parte del Dna culturale degli individui. Mentre migliaia di parole provano a raccontare la storia, le fotografie saranno sempre vincenti nel restituirla. C'è un implicito patto di fedeltà alla base della fruizione fotografica, che, nonostante i corpi ritoccati sulle copertine dei patinati, continua ad alimentare la fede nel fotogiornalismo. Salvo poi imbattersi in slublog.com e osservare, in sequenza, sei fotografie firmate Associated Press e Reuters che rappresentano la stessa identica scena: un pupazzo (ogni volta diverso) abbandonato tra le macerie della guerra in Libano nel 2006.
Il New York Times li ha chiamati toys photographers, i fotografi di giocattoli, chiedendosi, in una lunga intervista al fotografo Ben Curtis (l'unico disposto a dare spiegazioni), se ci sia solo casualità o invece, l'intenzione di rendere più drammatica la scena introducendo il simbolo per eccellenza dell'innocenza violata.
«L'uso di giocattoli nelle foto di conflitto è una pratica comune nel nostro mondo», spiega Francesco Zizola, photoreporter romano, sette volte vincitore del prestigioso World Press Photo. «Io per primo nel 1996 ho ricevuto il premio per la foto dell'anno con un'immagine che ritrae una bambina angolana che stringe una bambola: in quel caso la bambola è un elemento legittimo per raccontare la tragedia delle mine anti-uomo,e non il tentativo di enfatizzare una scena drammatica perché altrimenti non lo sarebbe». Zizola ammette che sono tanti però che «cercano di compensare la mancanza di visione con la retorica».
Ma allora qual è il confine tra retorica e menzogna? Alla Reuters hanno avuto la risposta nell'agosto del 2006, quando il fumo che copriva il cielo di Beirut dopo un bombardamento dell'esercito israeliano è stato ritoccato dall'autore dell'immagine, Adnan Hajj, per renderlo più scuro. «Siamo rimasti scioccati, racconta Chris Helgren, a capo dei fotografi Reuters per l'Italia, avevamo sempre pensato che una policy rigida e la fiducia nel nostro team fossero garanzia di veridicità e invece abbiamo scoperto che non bastavano». Non è solo un problema di postproduzione: ironia della sorte, la manipolazione dell'immagine può passare anche attraverso il testo scritto. «Negli anni Novanta le didascalie che accompagnano le foto erano delle piccole poesie, più che una funzione descrittiva avevano quella di dare qualche elemento in più all'immagine; dal 2000 cerchiamo di essere oggettivi e concisi, anche perché per un fotografo è meglio fare una caption semplice ed esplicativa piuttosto che stare a spiegare ai blogger per un anno cosa voleva dire». Helgren è convinto che quello della rete sia un falso controllo, perché se è vero che «le agenzie diventano più serie e attente i blogger, protetti dall'anonimato, possono dire quello che vogliono».
È stata una didascalia sbagliata a minare per poche ore la credibilità dell'Associated Press: il responsabile della redazione fotografica, Domenico Stinellis, racconta che uno studente americano, salvato da un lancio di sassi da un soldato israeliano, nella didascalia che accompagnava l'immagine veniva descritto come il palestinese responsabile della sassaiola.
Enzo Merlina, che in Ap ha visto il passaggio dall' analogico a digitale, sostiene che basta un'inquadratura per dare un messaggio: «Il caso classico è quella della manifestazione di piazza: se in un scontro tra manifestante e poliziotto decidi di mostrare solo il punto di vista di uno dei due stai facendo un lavoro politico». Merlina afferma che la digitalizzazione della fotografia ha fatto sì aumentare quantità e circolazione delle immagini ma parte della qualità si è persa: « Prima della rivoluzione digitale, per ogni evento che accadeva in giornata erano disponibili pochissime foto, che venivano scelte con cura dalle redazioni: oggi mi capita di vedere sempre più spesso lunghissime gallerie fotografiche, ma spesso non c'è una foto che valga la prima pagina».
A chi pensa che sia tutta colpa della tecnologia bisogna ricordare che il primo falso fotografico risale al 1861, quando per il ritratto ufficiale del neopresidente Lincoln fu scelto di sovrapporre la sua testa a quella di un tale John Calhoun, che aveva il physique du rôle da presidente. Come un peccato di vanità si sia trasformato in uno strumento di propaganda politica - da Stalin che faceva scomparire i nemici a Mussolini che voleva sembrare più eroico- è da 150 anni pena di storici di tutto il mondo. Nello scatto come nella verifica dell'autenticità, un rimedio lo prendiamo dalle parole di Robert Capa che amava dire: «Se la foto non è buona, vuol dire che non eri abbastanza vicino».