Il 2010 dovrà essere l'anno delle riforme compiute. Lo richiede la situazione economica e la necessità di fare in modo che l'Italia possa sfruttare le opportunità che un mondo cambiato dopo la crisi potrà offrire. Opportunità che sono più grandi delle minacce, se le sapremo cogliere. Il governo ha certamente la responsabilità primaria delle riforme e l'invito alla condivisione più ampia possibile non può attenuare questa responsabilità. Ne è nato un dibattito alto, alimentato anche da autorevoli interventi, sul pericolo che la condivisione possa rendere confuse, e quindi inefficaci, le riforme, specie quelle costituzionali, allontanando quella rivoluzione liberale che molti attendevano dalla seconda repubblica. L'alternativa sarebbe procedere a maggioranza.
Credo, invece, che il problema debba essere posto in modo diverso. Tutte le riforme sono adottate a maggioranza, l'ampiezza della maggioranza descrive il grado di condivisione. Il vero nodo è che quando si parla di riforme non è detto che la maggioranza debba corrispondere a quella di governo, e quando si parla di riforme costituzionali, che investono i valori fondanti della nostra società, i confini possono non coincidere con quelli tra la maggioranza e la minoranza politiche. Questa è la difficoltà, ma non la si supera nascondendola o rifugiandosi dietro il politicamente corretto. Al contrario, essa va affrontata apertamente e senza vergogna o isterie.
Perché, ad esempio, parlando di riforme costituzionali, si arriva a discutere anche della prima parte della nostra Costituzione repubblicana? Perché le riforme per essere efficaci devono avere un'anima, un'idea della società che vogliamo costruire e quindi richiamarsi ai principi fondanti che sono esplicitati nella parte prima della Costituzione. E in merito alle recenti polemiche mi sento di condividere quanto affermato dal costituzionalista Giovanni Guzzetta: «Non credo che nessun dibattito serio sulle riforme si possa avviare se continua questa "disinformazione di qualità" cui i cittadini sono quotidianamente sottoposti, da parte di importanti esponenti politici, da cui ci si attenderebbe anche una qualche avvedutezza tecnica. Trovo culturalmente gravissimo e intellettualmente disonesto (e anche politicamente perdente) anziché obiettare nel merito delle questioni, appellarsi con scandalizzata supponenza a presunti vincoli costituzionali relativi alla prima parte della Costituzione, come se fosse la cosa più scontata del mondo. Non esiste una sola riga della monumentale giurisprudenza costituzionale dal 1956 a oggi in cui si affermi che la prima parte della Costituzione sia interamente immodificabile (e infatti è stata modificata nel 2003). I limiti sono pochi e puntuali e prescindono dalla topografia».
La Costituzione repubblicana ha garantito all'Italia libertà e democrazia, ma la sua formulazione, la sua terminologia, è figlia delle categorie del primo Novecento, squassato dalle tragedie delle dittature fasciste e comuniste. Essa è il prodotto non di una condivisione, ma di un compromesso tra una visione liberale della società e una ancorata al conflitto di classe.
Qual è la non chiarezza che ancora ci portiamo dietro di questo compromesso e che importanza ha per le riforme da attuare? La non chiarezza è che essa sottintende la ricerca di un equilibrio tra interesse e libertà dell'individuo e un astratto interesse generale, di cui lo stato dovrebbe essere portatore, a cui si attribuisce un valore superiore. Piuttosto, in una società aperta, libera, dinamica e in grado di crescere, è il principio generale della libertà dell'individuo, la dignità complessiva della persona, che lo stato è chiamato prioritariamente a tutelare, ed è in questa tutela, per tutti e contro tutti, che risiede il vero interesse generale, che si deve ritrovare nel buon governo.
Anche il richiamo al valore del lavoro non può essere inteso come il richiamo alla classe lavoratrice distinta dalla generalità dei cittadini. Il lavoro è la più alta espressione della libertà individuale, parte integrante di essa e mezzo di realizzazione e riconoscimento dei valori individuali che la società deve imparare a riconoscere e tutelare, e che nel mercato, nella concorrenza, nella remunerazione del merito e nella trasparenza totale, deve trovare la sua applicazione concreta.
Tali principi sono quasi del tutto assenti nell'attuale prima parte della nostra Costituzione, la loro accentuazione aiuterebbe a dare la direzione di marcia che oggi non può essere la stessa del secolo scorso, come peraltro è confermato sia dalla nostra partecipazione all'Unione Europea che dal contesto economico globale. Credo che la necessità di affermare con più forza questi valori sia condivisa non solo nell'attuale maggioranza politica: diverse sensibilità si colgono in tutto l'arco dello schieramento parlamentare.
Come ministro ho appena varato una riforma della Pubblica amministrazione sostanzialmente condivisa. Essa è certamente diretta a portare efficacia, efficienza, produttività e trasparenza a tutti i settori della Pa e sono convinto che molti dei problemi italiani si risolverebbero con una buona e corretta amministrazione. Ma questa riforma avrà successo solo se si rovescia il rapporto tra Pa e cittadini. La Pa ha come scopo servire in modo efficiente gli interessi individuali. Tutti, non quelli di alcuni. La sua riforma vuol essere in primo luogo una componente essenziale per la riforma di uno stato degno appunto di una società libera e aperta. Anche la recente introduzione dell'azione collettiva nei confronti della Pa ha questo significato. Ci dispiace che molti, anche di ispirazione liberale, non ne comprendano la portata.
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