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Cina, drago a due teste

di Guido Tabellini

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6 febbraio 2010
Democrazia o sviluppo, Cina drago a due teste

In un recente viaggio in Cina, ho posto la medesima domanda a due economisti cinesi di diversa formazione: quali ostacoli potrebbero interrompere o rallentare la vertiginosa crescita economica di Pechino?
Entrambi erano molto ottimisti circa le prospettive economiche dei prossimi anni. Ma con riferimento al futuro più lontano, ho ricevuto due risposte molto diverse. Il primo, un alto funzionario di governo formato alla scuola economica cinese e che parlava solo la sua lingua, ha risposto che nel medio periodo l'ostacolo principale è la scarsità di risorse naturali: ambiente e materie prime. Il secondo, un accademico con esperienza di studio e lavoro negli Stati Uniti, ha risposto in un inglese perfetto che la minaccia più grave sono i valori dei cittadini e la loro scarsa considerazione per i principi fondamentali delle democrazie occidentali: la libertà d'espressione e d'organizzazione politica, la separazione dei poteri, lo stato di diritto. Entrambe le risposte colgono punti rilevanti.

La visione semi-ufficiale è che la Cina potrà continuare a crescere al 10% all'anno ancora a lungo, perché il paese deve ancora sviluppare una grande frontiera interna. Grazie a un'abbondante manodopera agricola con un livello basso ma non nullo d'istruzione, la trasformazione dall'agricoltura all'industria potrà durare molti anni. Inoltre, vi è ampio spazio per sostituire la domanda estera con domanda interna: il paese ha grande bisogno d'infrastrutture e investimenti, e i consumi privati sono solo poco più di un terzo del reddito nazionale. Infine, il modello di governo cinese, l'autoritarismo decentrato, funziona bene e non sarà messo in discussione purché duri lo sviluppo economico. Insomma, l'unico limite visibile alla crescita per ora è dato dal degrado ambientale e dal costo delle materie prime.
La visione filo-occidentale è che il modello di governo cinese, per quanto efficace dal punto di vista economico e organizzativo, ha due gravi vulnerabilità: primo, si presta a forme di nepotismo e corruzione; secondo, e nel lungo periodo assai più importante, è privo di un robusto meccanismo di correzione degli errori.

La cultura cinese è di per sé poco incline allo spirito critico. Ciò è accentuato da un sistema educativo e di selezione molto competitivo ma anche molto diretto dal sistema politico, e da una tradizione politica che non ha mai conosciuto il costituzionalismo democratico. Se per qualche ragione i vertici dello stato cinese prendessero decisioni strategiche sbagliate, tutta la società potrebbe seguirli senza impedirne gli errori.
Entrambi i miei interlocutori erano tuttavia d'accordo su un'osservazione: la recente crisi finanziaria ha rinforzato la visione semi-ufficiale e ha spostato l'onere della prova verso la posizione filo-occidentale.

La crisi ha rivelato le fragilità del sistema economico americano e ha evidenziato le capacità del modello di governo cinese nell'affrontare tempestivamente situazioni impreviste e difficili.
Se la Cina ha superato così bene la più grave crisi economica mondiale del dopoguerra, può ragionevolmente attendersi di continuare a crescere a questi ritmi ancora per tanti anni.
Questa rinforzata sicurezza della Cina nei confronti del suo futuro e del suo modello di società ha implicazioni rilevanti per il resto del mondo. È probabile che la Cina diventi più nazionalista e che aumentino le occasioni di scontro con le democrazie occidentali.
Lo stiamo già osservando da alcuni mesi, nell'atteggiamento inconciliante al vertice di Copenhagen sul clima, nelle polemiche con Google, negli screzi con gli Stati Uniti su varie questioni di politica estera.

Se tutto ciò dovesse continuare e accentuarsi, le implicazioni economiche mondiali potrebbero essere molto rilevanti. La globalizzazione e la crescita del commercio internazionale sono stati uno dei principali motori dello sviluppo economico della Cina e di altri paesi emergenti negli ultimi decenni.
Ma anche nell'era di internet e della globalizzazione, l'apertura agli scambi commerciali è pur sempre una scelta politica che i governi (della Cina o dei paesi occidentali) potrebbero interrompere. Ciò è tanto più probabile quanto più aumentano le occasioni di conflitti nazionalistici e le incomprensioni tra paesi.

Come è stato osservato in un recente studio di due economisti americani (Daron Acemoglu e Pierre Yared), anche in assenza di veri e propri conflitti, l'evidenza empirica degli ultimi decenni mostra una forte correlazione negativa tra spese militari e scambi commerciali: i paesi che accumulano più spese militari hanno una crescita più modesta degli scambi commerciali, sia in assoluto che tra di loro.
Non sarebbe la prima volta che il nazionalismo interferisce con il commercio internazionale e la globalizzazone.

6 febbraio 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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