Tutti gli economisti conoscono il rischio insito nella data del 1937, quando la Federal Reserve e l'amministrazione Roosevelt decisero che la Grande depressione era finita. Ma per molti di loro la storia non si ripete mai, e oggi non siamo affatto in quella situazione. Per questo non concordano sulla visione di Paul Krugman né sul suo allarme a non tornare alla normalità troppo in fretta.
Se la politica monetaria deve essere non convenzionale quando deve prevenire il collasso del sistema finanziario allora in questo caso «mission accomplished» , missione compiuta sostengono in coro i partigiani dell'exit strategy. «Tutti gli indicatori dei mercati finanziari sono tornati alla normalità e tali rimarranno dopo aver tolto le misure straordinarie. Le banche stanno macinando profitti che stanno rafforzando il loro capitale. Quindi è ora di dar il via all'exit strategy », spiega Daniel Gros, presidente del Centre for European Policy Studies (Ceps), dall'Aea meeting in corso ad Atlanta che si sta trasformando in un acceso dibattito tra i sostenitori di Krugman, presente ai lavori, e i suoi oppositori.
Affine il parere di Eric Chaney, ex capo economista europeo di Morgan Stanley a Londra e ora di Axa group a Parigi: «Se dovessimo, come Leibnitz, descrivere il migliore dei mondi possibili nel 2010, o come dicono gli economisti, lo scenario migliore per uscire dalla crisi, io lo descriverei così: la Fed alzi i tassi prima della fine dell'anno e prima della Bce». E il 1937? «Proprio guardando a quell'anno dico che oggi le cose sono diverse e la bolla dei debiti pubblici è il vero pericolo».
Ma non è solo la politica monetaria a dividere gli economisti: sul piatto c'è la ricetta per salvare i posti di lavoro,che è l'implicito obiettivo della proposta di Krugman, ovvero riportare rapidamente la disoccupazione ai livelli pre-crisi. Questo per Gros è impossibile perché non ci sono più le condizioni. La realtà è che chi chiede di alzare i tassi sa che la festa è finita, come da tempo sostiene Paul Volker, ex governatatore della Fed e inascoltato advisor della Casa Bianca, e che il mix di occupazione in America deve cambiare (dai mercati finanziari all'export manifatturiero) e questa trasformazione richiede un periodo di parecchi anni di alta disoccupazione.
Una medicina amara ma non più rinviabile. «Il dollaro è debole e resterà tale per lungo tempo. L'America consuma meno di un tempo e questo è il rimedio agli eccessi del decennio passato: il paradigma che prima si basava su un consumatore americano sfrenato ora si trasforma in un equazione con meno deficit e più esportazione», spiega Chaney. In questo contesto un dollaro debole va bene per l'export americano ma la moneta non deve precipitare. La Federal Reserve deve far sì che il dollaro non crolli. Il rischio è che se non si alzano i tassi prima della fine del 2010 in America torni una nuova recessione e la deflazione in Europa.
Insomma i monetaristi vogliono tornare il più rapidamente possibile alla normalità (preoccupa l'invecchiamento della popolazione e la conseguente tenuta del welfare e della previdenza sociale): perché di troppo Keynes, leggi spesa pubblica e debito, si può morire.
Così tornano a riscoprire quel filone che passa dalla Bundesbank di Hans Tietmeyer e dall'ex ministro delle Finanze di Helmut Kohl, Theo Waigel, la scuola dell'inflazione sotto il 2 per cento. È il capolinea delle politiche di tassi vicini allo zero che troppo spesso sono state il paravento per coloro che hanno giocato sul moral hazard (tanto qualcuno sarebbe intervenuto perché troppo grandi per fallire). Oggi è la bolla dei debiti pubblici, di cui le traversie della Grecia, l'Irlanda e la Spagna sono solo un esempio, il pericolo cui guardare. Come diceva Bob Dylan, the times they are a-changin'.