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IL NUOVO STATO / Riformatori, deponete il piccone

di Michele Ainis

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6 gennaio 2010

Un virus riformatore si diffonde nella nostra cittadella pubblica. Non c'è politico, di destra o di sinistra, che non affidi agli anni Dieci le riforme rimaste in frigorifero durante gli anni Zero. A partire da quella più ambiziosa, la riscrittura della Costituzione. E allora calma e gesso, per favore. Perché l'enfasi dell'ammodernamento può indurci a picconare anche quanto merita d'essere salvato. E perché questo cicaleccio generale sulle istituzioni che verranno, per intanto raggiunge il solo effetto di delegittimare ulteriormente quelle già esistenti. Si nasce incendiari e si muore da pompieri, diceva Pitigrilli. Ma a quanto pare nella sempreverde Italia mancano i pompieri. C'è dunque il rischio che la casa bruci, mentre nessuno ha un estintore in mano.

Non che difetti l'esigenza di qualche aggiustamento. La forma di governo, per esempio, è diventata un colabrodo, con due camere che si paralizzano a vicenda e con un perenne contenzioso sui poteri del governo. Tuttavia in primo luogo manca l'accordo su come intervenire.C'è la bozza Violante,è vero, eredità della trascorsa legislatura; però non contempla l'elezione diretta del premier, un punto che la destra stima irrinunciabile, la sinistra incommestibile. Inoltre non tocca la giustizia, su cui gli accordi sono tutti da imbastire. E in secondo luogo sarebbe ingeneroso addossare ogni misfatto alla Carta del 1947. La perduta autorità del parlamento, per esempio, non dipende dalla Costituzione bensì dalla legge elettorale, che ha trasformato gli eletti in nominati; e allora cambiamo la seconda, non la prima. Ma soprattutto mettiamoci d'accordo su quali mura dell'edificio costituzionale intendiamo preservare; magari dopo quest'intesa sarà più agevole siglare l'intesa successiva, quella che dovrà cucinare le riforme. Insomma lavoriamo per sottrazione, non per addizione.

Succede tuttavia l'opposto. Anche la prima parte della Carta, che dovrebbe situarsi fuori dal perimetro solcato dai ri-costituenti, ne subisce l'incursione. Vi si è lanciato contro il ministro Brunetta, puntando l'indice contro l'articolo 1, che disegna «una repubblica demo-cratica, fondata sul lavoro». Formula arcaica, dice Brunetta: non il lavoro bensì la concorrenza e il merito sono i pilastri del nostro vivere comune. Potremmo rispondere che ambedue i pilastri vennero per l'appunto edificati dai padri fondatori, la concorrenza all'articolo 41 («L'iniziativa economica privata è libera »),il merito all'articolo 34 («I capacie meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi»). Norma, quest'ultima, dove peraltro riecheggia l'articolo 6 della Déclaration francese del 1789.

Potremmo aggiungere che il lavoro non è uno specchio dove si riflettono la falce e il martello, bensì la principale sorgente di significati esistenziali. Quale che sia il lavoro, anche nell'ambito domestico, perché ogni attività lavorativa è sempre un servizio reso agli altri. Fondare l'Italia sul lavoro significa, in breve, fondarla sulla solidarietà. Meglio l'egoismo dei singoli e dei gruppi? Potremmo osservare infine che l'alternativa semantica a suo tempo proposta da Segni, Pera, Panebianco e vari altri suona suggestiva ma totalmente vuota. Quale alternativa? Sostituire la libertà al lavoro. Ci provò, del resto, anche Ugo La Malfa in assemblea costituente. Tuttavia i suoi colleghi gli risposero che la libertà è già implicita nella democrazia, che non serve fabbricare una repubblica democratica al quadrato. Sennonché Brunetta è tutt'altro che isolato. La sua parte politica ha sollevato un'obiezione tattica (non mettiamo troppa carne al fuoco), senza eccepire nulla circa il merito della proposta di riforma. Sull'altra sponda dello schieramento c'è da tempo, per esempio, il progetto sottoscritto dai Radicali, anche in questo caso per espellere il lavoro dai fondamenti della nostra convivenza. A sinistra come a destra torna ciclicamente ad affacciarsi l'idea di battezzare un'assemblea costituente, che ovviamente avrebbe mani libere sulla prima parte della Carta: ogni Costituente è come il Padreterno, onnipotente e onnisciente mentre plasma il mondo. Infine gli stessi correttivi alla seconda parte della Carta, che ciascun partito avanza a piene mani, rischiano in qualche caso d'uccidere il paziente. Il nostro stato di diritto non potrà infatti sopravvivere senza una chiara separazione dei poteri, senza controllori indipendenti, senza un argine ai conflitti d'interesse.
C'è bisogno insomma di selezionare i beni costituzionali indisponibili, e c'è poi bisogno di proteggerli trasformandoli in tabù. Come l'incesto, perché no? Dopotutto usare violenza alla Costituzione è come farla ai propri genitori.

6 gennaio 2010
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