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Dialetti a scuola? Tanto paga sempre Pantalòn

di Alessandro De Nicola

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6 settembre 2009

«Figurarse, figurarse. Mi penso a casa mia, e no penso ai altri». Così dice il sior Lunardo nella commedia I Rusteghi del grande Carlo Goldoni. E così dicono i pimpanti leghisti che propongono di spender soldi per la diffusione e l'ufficializzazione del dialetto nelle varie regioni della Padania. «Mi penso a casa mia», proprio così, perché questo neonato afflato verso la lingua locale non sembra rispondere ad alcun criterio di interesse generale o di efficienza economica, ma solo a più mondani scopi che riveleremo alla fine.
Andiamo con ordine. La battaglia del dialetto prende due forme, una attiva, e cioè la promozione dello stesso attraverso l'insegnamento, la traduzione di testi, il doppiaggio o la sottotitolazione di film e documentari; una passiva, nel senso che si richiederebbe ai dipendenti pubblici di dimostrare nozioni di conoscenza di storia, tradizioni e lingua locali per poter accedere al posto di lavoro (o magari avere promozioni).

Quanto alla forma attiva, si tratterebbe naturalmente di dilapidare denaro pubblico, pagato cioè anche da chi non solo nel resto d'Italia, ma all'interno della regione stessa non sa il dialetto o non è per nulla interessato ad impararlo. Inoltre, poiché il mercato - o se preferite, i cittadini - non richiede affatto questo servizio (altrimenti le librerie sarebbero piene di testi in veneto e piemontese, manuali di lingua, dvd sottotitolati o doppiati e i teatri sarebbero affollati di bergamaschi entusiasti di ascoltare qualche commedia di Shakespeare recitata con la loro simpatica inflessione), assisteremmo ad una politica culturale monopolista del partito al governo della regione che deciderebbe unilateralmente cosa tradurre (Brecht in friulano, si è saputo) e quali manifestazioni siano degne di sovvenzioni. Peraltro, mentre, ad esempio, il francese in Quebec ha senso (4 milioni e mezzo di canadesi sanno solamente il francese e 7 e mezzo sono francofoni), da noi si reintrodurrebbero a forza dialetti che in nessuna parte d'Italia sono insegnati o scritti da almeno 150 anni. Ovviamente, se alle elementari si impartiranno 3 ore alla settimana di milanese (certo, il lombardo puro non esiste) si rinuncerà a…l'inglese? La matematica? La storia? E più avanti? Niente chimica, ostregheta! Proviamo a fare un bel referendum tra i genitori e vediamo cosa succede se si danno delle alternative concrete («ti becchi il trevigiano e rinunci a fisica, pagando anche più tasse»): non sono un indovino ma prevedo il risultato del voto.

Passiamo al dialettismo passivo. Qui è fin troppo facile argomentare che dei test basati sul localismo priverebbero la pubblica amministrazione (ai privati manco si osa proporre un simile esamino) di persone di talento perché non possiedono capacità del tutto irrilevanti: «Lei è un ottimo giurista ma non può fare il notaio o il magistrato a Rovigo poiché non sa La canzone dei Gobeti, quella del canonico don Piero coa goba fata a pero» .
Il dialetto è un modo di comunicare che salda i rapporti tra gli appartenenti a una comunità, ma diventa un fattore di inefficienza e discriminazione se imposto. E quindi il mio convincimento è che i motivi per la novella campagna siano di propaganda per solleticare il sentimentalismo senza spiegarne i costi e poi la creazione di un po' di posti di lavoro che verranno occupati da chi saprà esser grato ai loro creatori nonché la distribuzione di fondi pubblici ad altrettanto riconoscenti percettori. Paga sempre…Pantalon, orco can!

adenicola@adamsmith.it

6 settembre 2009
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