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Beniamino Placido (1929-2010) / Beniamino e il segreto di Odisseo

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7 gennaio 2010

Nel quartiere Prati della Roma anni 70, tra una piazza dove solo i neonazisti potevano far capolino e che oggi è, ironia del futuro, popolata da paciosi filippini, fra teatri d'avanguardia e il palcoscenico di Pingitore, un omino con i giornali sottobraccio, la busta di plastica della spesa con l'insalata e una copia stazzonata della Tempesta di Shakespeare, passava in gran fretta al mattino, spingendo verso scuola la figlioletta Barbara. Per i passanti era uno dei tanti romani che, in una capitale ancora paesone, - bonario e violento - tirava a campare. Per gli amici, gli studenti, gli intellettuali e, presto, tanti lettori, era «Beniamino», Beniamino Placido, il critico scomparso ieri a Cambridge a 80 anni. Sposato con la meravigliosa anglista Nadia Fusini, di cui metà Sapienza era innamorata, Placido aveva lavorato alla Camera, come funzionario, poi era tornato all'amata letteratura anglosassone con Agostino Lombardo e s'era cavato lo sfizio, baby pensionato, di una comparsata nella pellicola d'esordio del suo amico Nanni Moretti, Io sono un autarchico, girata mentre discuteva col fratello del regista, Franco, storico delle letteratura, e avviava agli studi la sorellina Silvia. La famiglia allargata arrivava ovunque: quando Barbara Placido, studentessa di antropologia, arriva a New York saranno gli amici di "Beniamino" ad accoglierla al lavoro.

Grand commis, intellettuale, uomo arguto e ironico, studioso di letteratura angloamericana, Placido sembrava avere avuto già tante vite in una. Invece la sua esperienza più importante arriva da pensionato, quando Eugenio Scalfari gli offre la critica televisiva del neonato quotidiano Repubblica. Accetta: e rileggerne le note, come la successiva rubrica Nautilus, strugge per la distanza dal tono volgare e rauco che oggi domina tutti i quotidiani. Placido cercava la buona tv, i programmi da elogiare, deprecava la cattiva tv e la castigava, ma era attento a ogni progresso, ogni evoluzione, incoraggiava giovani e debuttanti.

Ieri su Sky Aldo Grasso, critico del Corriere della Sera che Placido indicava come erede, ne ha ricordato «la generosità». Vero: le sue recensioni premiavano spesso l'esordiente, il solitario, chi faticava a farsi largo. In tv era pronto a cogliere il dettaglio, l'inquadratura che racconta tutta una storia. Recensendo Milano-Italia, il talk show che mi capitò di condurre nei primi anni 90, seppe discutere di un singolo scambio di battute, costruendone il paradigma del talk show.
Come tutti i veri uomini colti Beniamino Placido amava la gente semplice e si batteva perché avesse accesso, non perché le fosse preclusa, la cultura alta. E detestava i fighetti saccenti e i tromboni retorici così popolari oggi. Di origini contadine, era nato a Rionero in Vulture, in Basilicata, era a suo agio con i versi di Eliot e Yeats, ma poi citava in dialetto il proverbio della nonna, muovendo il volto in smorfie alla Woody Allen, maschera sempre capace di scatenare risate e attenzione.

Agli amici alla vigilia di un cambiamento, un nuovo lavoro, un viaggio, una storia d'amore seria, amava chiedere: «Sai perché Odisseo non ascolta Calipso e non rimane con lei sull'isola felice, pur davanti alla promessa di diventare immortale, bello, sano e innamorato per sempre? Sai perché rinuncia a quella eterna felicità e si rimette in mare tra mostri, tempeste e nemici ferocissimi, umani e divini?». Di fronte allo sguardo perplesso dell'interlocutore, sgranava gli occhi bulbosi, accennava un sorriso malizioso, alzava l'indice da saggio e scandiva «Perché per noi umani l'identità è più importante dell'immortalità, capisci? Sempre!». L'identità era cambiare, studiare, viaggiare, praticare nuovi mestieri, ma senza cambiare il cuore a nessun costo, neanche in cambio dell'immortalità e di una Dea come amante.
G.R.

7 gennaio 2010
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