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I costi della società parallela

di Carlo Trigilia

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7 settembre 2009

Se si gira per il centro di Palermo, o di altri grandi città meridionali, si resta colpiti dai livelli di consumo: negozi di lusso, auto di grossa cilindrata, locali alla moda. Con le debite differenze spesso la stessa sensazione può cogliere chi si trova a passeggiare per centri minori. Forte appare poi il contrasto tra la ricchezza privata e la povertà di servizi pubblici e attrezzature collettive. Naturalmente, ciò non vuol dire che non esistano situazioni di forte disagio economico e sociale, specie nelle periferie urbane. Nel complesso, però, risulta difficile conciliare queste immagini quotidiane con i dati che ci vengono dalle statistiche sui redditi dichiarati al fisco. Come si può spiegare questo contrasto?

Il confronto tra redditi dichiarati e i consumi per abitante - proposto dal Sole 24 Ore - conferma che non si tratta di un'immagine impressionistica ma di una divaricazione reale, particolarmente evidente in alcune regioni del Sud. Certo, lo scarto tra redditi dichiarati e consumi è anche influenzato da altri fattori, tra cui i beni consumati dai turisti, le rimesse degli emigranti, l'uso del risparmio o il ricorso al debito, oltre che la tendenza a evadere. Ma quando si arriva a differenze di oltre il 35%, come speso accade nel Sud, è evidente che ci troviamo in presenza di un circuito economico-sociale alternativo a quello legale: una sorta di società parallela, anche se strettamente legata a quella visibile.

Del resto, è significativo che le stesse regioni si segnalino per la più ampia diffusione del lavoro non regolare (che raggiunge punte di oltre il 20%, e nel Mezzogiorno è il doppio del Centro-Nord), e per il maggior radicamento dell'economia criminale.

Per spiegare questo circuito economico-sociale alternativo - che evade il fisco, ma anche la normativa sul lavoro, o quella sulla sicurezza e sull'inquinamento - il punto di partenza non può che essere l'intervento pubblico. A prima vista, può sembrare strano che venga chiamato in causa il modo in cui funzionano le istituzioni politiche. Molti potrebbero pensare che la diffusione dell'economia sommersa non sia che l'effetto di una situazione di sottosviluppo economico, come accade in molti paesi arretrati. Ma non è del tutto vero per il Sud.

Da oltre 50 anni, infatti, il settore pubblico trasferisce al Sud più risorse di quante ne riceva, con l'obiettivo di aiutare lo sviluppo. Eppure, paradossalmente, sono cresciuti i consumi, alimentati da una diffusa economia sommersa, ma non uno sviluppo autonomo.

Il fatto è che i trasferimenti pubblici da soluzione si sono trasformati in problema. La classe politica locale e regionale si è trovata a gestire risorse crescenti in un quadro di fragilità storica della società civile e di debolezza della cultura civica. In questa situazione, il consenso politico si è basato sull'assistenzialismo e sul clientelismo: sulla tendenza a distribuire benefici particolari piuttosto che offrire beni e servizi collettivi.

Le conseguenze sono state rilevanti, perché non solo non si sono rafforzate adeguatamente attività capaci di stare mercato, ma si è determinato l'effetto perverso di favorire l'economia sommersa e la sua componente criminale. Come è potuto accadere?

Le attività imprenditoriali sane hanno incontrato forti difficoltà a svilupparsi per carenza di infrastrutture e servizi, inefficienza e arbitrarietà delle amministrazioni pubbliche. Per fortuna, in molte aree del Sud, iniziative capaci di stare sul mercato sono cresciute, ma tra notevoli difficoltà e non in misura tale da poter assorbire il bisogno di occupazione. Da qui un primo fattore: un'ampia offerta disponibile ad accettare lavoro nero o addirittura criminale (una via percorsa da molti giovani). A questa componente se ne aggiunge un'altra particolarmente presente al Sud: una vasta area di dipendenti del settore pubblico, spesso precari, con remunerazioni molto basse o sussidi assistenziali, che integrano il loro reddito con attività in nero. Ma chi utilizza queste risorse lavorative?

Anzitutto, una piccola imprenditorialità operante soprattutto nel settore dei servizi a bassa produttività (commercio, alberghi, ristoranti, altri servizi alle persone), per i quali lavoro nero e evasione fiscale sono requisiti strutturali per stare sul mercato; ma diffusa anche nelle costruzioni, in agricoltura, e in misura minore nel manifatturiero.

L'altro grande protagonista è la criminalità organizzata, specie nelle regioni dove più forte è lo scarto tra redditi dichiarati e consumi. Queste sono le aree dove vecchie tradizioni di imprenditorialità criminale si sono modernizzate in stretto rapporto con una pubblica amministrazione debole e più permeabile alla corruzione. Si tratta, appunto, di Calabria, Sicilia, Campania e Puglia. Non a caso sono queste le aree dove appare più forte il contrasto tra consumi privati e squallore pubblico.

trigilia@unifi.it

7 settembre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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