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IL CASO CALIFORNIA / Il dialogo con l'Islam è convivenza quotidiana

di Khaled Fouad Allam

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8 Settembre 2009

Due importanti eventi hanno caratterizzato il nostro passaggio nel XXI secolo. Il primo è l'attentato alle Twin Towers di New York l'11 settembre 2001, il secondo è il crollo di una delle più importanti banche del mondo, la Lehmann Brothers, il 14 settembre 2008. Il caso vuole che questi due eventi che hanno segnato la storia si siano svolti nello stesso luogo, New York, e nello stesso mese a distanza di sette anni.

La natura delle due crisi è totalmente diversa, ma gli effetti di entrambe si propagano tuttora nello spazio e nel tempo, e amplificano il problema della governance delle stesse crisi. Nel primo caso si tratta dell'Islam politico e del suo versante terroristico; nel secondo, si tratta dell'economia finanziaria e dei limiti che ad essa vanno posti, date le conseguenze della crisi sull'economia reale.

In questi ultimi mesi si è ragionato su queste crisi in modo astratto, dimenticando un aspetto fondamentale, quello dell'uomo come soggetto e autore della propria crisi. È interessante osservare gli effetti di queste crisi in un contesto molto diverso da quello italiano ed europeo, la California. Sembra un paradosso, ma mentre gli Stati Uniti sono stati colpiti dal radicalismo islamico, qui la questione dell'Islam e per estensione l'annosa questione del multiculturalismo non sembrano essere tra le maggiori preoccupazioni: perché da molto tempo la California è un laboratorio del mondo, con i suoi 36 milioni di abitanti, ed è stata - prima della crisi economica - l'ottavo paese al mondo come Pil.

Qui la gente ha imparato a vivere insieme: in una città come San Francisco, i quartieri hanno dei tratti etnici - cinese, giapponese, eccetera - ma non si strutturano creando delle frontiere bensì delle reti; e le reti sono formate dalle persone, dall'andare e venire di una moltitudine di popoli e religioni che si incontrano. Così, in pieno quartiere giapponese ho visto una coppia dai tratti somali che salmodiava il Corano senza che nessuno vi facesse caso; in un'altra zona della città, ho sentito intonare canti religiosi tibetani; lungo le strade, sono numerose le coppie di giovani di razze e religioni diverse e i bambini frutto di coppie miste.

Certo, l'Islam radicale ha traumatizzato gli Stati Uniti; ma a otto anni di distanza dall'11 settembre, il presidente Obama ha ricevuto i rappresentanti della comunità musulmana per gli auguri del mese di Ramadan e ha ribadito che l'Islam e i musulmani sono parte integrante della nazione americana.

Accendo la televisione e assisto, sul canale Fox Television, a un dibattito su immigrazione e Islam in Europa, in cui un esperto afferma che l'Europa integra male le popolazioni immigrate. Le considerazioni dell'analista possono apparire drastiche, ma io ritengo che abbia ragione: da questa parte del mondo l'Europa appare giunta a un punto di svolta. Dalla questione dell'ingresso della Turchia in Europa all'integrazione degli immigrati, l'Europa sembra chiudersi in se stessa e non capisce ancora che ha bisogno di rinnovare e rivitalizzare il proprio tessuto sociale e umano.

L'Europa invecchia a velocità crescente, lo mostrano in modo inquietante le statistiche del Dossier sulla popolazione mondiale delle Nazioni Unite: entro il 2025 l'età media della popolazione degli Stati Uniti sarà di 37 anni, quella della popolazione europea di 57 anni, vi sarà quindi tra di esse uno scarto di 20 anni. La capacità di rinnovarsi della società europea sarà sempre più debole, con una classe dirigente sempre più vecchia in tutti i settori, e sempre meno competitiva di fronte ad altre società.

Il multiculturalismo non è dunque un lusso, ma la condizione sine qua non del nostro vivere nel mondo globale. Gli Stati Uniti hanno sempre avuto un ruolo anticipatore; e forse non è un caso che queste due crisi siano iniziate lì. L'Italia e l'Europa sapranno prendere esempio dalla governance americana in materia di multiculturalismo?

8 Settembre 2009
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