Nicholas Sarkozy ha capito subito. E ha lanciato l'allarme. Nel giorno in cui il ministro delle Finanze giapponese Naoto Kan apriva una stagione di deprezzamento dello yen per sostenere le esportazioni, il presidente francese ha riproposto il tema degli squilibri globali. «Il disordine valutario del mondo è diventato inaccettabile», ha detto. E ha subito promesso: «È un grande problema, che la Francia metterà all'ordine del giorno quando sarà alla presidenza del G-8 e del G-20, nel 2011. Non ci può essere un ordine finanziario, economico e sociale fino a che non metteremo fine al disordine nei cambi».
Sarkozy parla di valute, ma il suo vero obiettivo polemico è il dollaro, secondo lui causa prima di questo disordine. Non è, questa, una posizione nuova per la Francia. Un tempo Parigi contestava l'«esorbitante privilegio» del dollaro, come lo chiamava Valéry Giscard d'Estaing negli anni 60, quando era ministro delle Finanze. «Se avessi un accordo con il mio sarto - spiegava in quello stesso periodo l'economista Jacques Rueff riferendosi agli Stati Uniti - in base al quale lui mi restituisce tutti i soldi che gli pago, nello stesso giorno, sotto forma di prestito, non avrei alcun problema a ordinargli sempre più vestiti». È quello che sembra accadere al dollaro, ieri con i partner europei, oggi con la Cina e il Giappone. Anche giovedì Sarkozy ha quindi attaccato il primato americano: «Le aziende europee non diventeranno più competitive mentre il dollaro perde il 50% del suo valore», ha aggiunto lanciando subito la sua proposta: «Il mondo è diventato multipolare, abbiamo bisogno di un sistema valutario multipolare».
Sarebbe, questo, un sistema più stabile? Meno caotico, come vorrebbe Sarkozy? Decisamente no. Il disordine valutario non è effetto del primato incontestabile del dollaro, ma del suo tramonto, a sua volta causato dal doppio deficit Usa, fiscale e commerciale, e dall'enorme indebitamento pubblico. Le vicende di giovedì - la decisione di Tokyo di far deprezzare la sua valuta eventualmente anche per mezzo di interventi della banca centrale sui cambi, insieme all'ennesimo rifiuto cinese di far apprezzare lo yuan malgrado un timido rialzo dei tassi - mostrano anzi quanto possa essere pericoloso, per tutti, il sistema multipolare auspicato dal presidente francese.
Il Giappone, di fatto, sta cercando di svalutare - anche se Kan ieri ha in parte corretto il tiro, per evitare frizioni con i partner – e compie questo passo come reazione a un'altra svalutazione: quella del dollaro, effetto forse non voluto ma sicuramente previsto, della politica economica ultraespansiva della Federal Reserve e dell'Amministrazione. La Cina, da parte sua, non fa nulla di molto diverso: il suo rifiuto a sganciare lo yuan dal dollaro, le permette di tenere artificialmente bassa la sua moneta nei confronti di tutte le altre, a cominciare dall'euro.
Se non è questa una prima, timida, ondata di svalutazioni competitive, in cui ogni paese cerca di ottenere vantaggi immediati e di breve respiro a danno dei partner, le somiglia moltissimo. Accadde qualcosa di molto simile negli anni 30 del Novecento, dopo la Grande crisi e prima degli accordi di Bretton Woods con cui si tentò di stabilizzare il sistema finanziario internazionale. Nel giro di pochi anni ventisei paesi decisero di far deprezzare la propria moneta, in un gioco al massacro reso ancora più aspro dalle politiche protezionistiche. Fu una reazione alla depressione globale, ma anche un effetto della fine del primato della sterlina, non ancora sostituita dal dollaro. Con il linguaggio di oggi, si può dire che il sistema valutario era, in quegli anni, multipolare.
La soluzione di Sarkozy, quindi, è peggiore del male che vuole curare. La malattia, però, c'è e va affrontata. Ormai sono tre i paesi che, di fatto, hanno preso la strada della svalutazione (o almeno della mancata rivalutazione): la prima, la terza e la quarta economia mondiale. Tutte le pressioni dei cambi non possono quindi che scaricarsi su Eurolandia, sempre meno disposta - come dimostrano le parole di Sarkozy - a subire. Non è azzardato pensare, allora, che il sistema possa presto diventare davvero caotico e per un periodo lungo. Esattamente come accadde tra il 1918 e il 1945, durante il tramonto della sterlina.
Oggi il dollaro vede erodere il suo primato, ma il suo successore non è ancora all'orizzonte. L'economia cinese è la metà - e solo a parità di potere d'acquisto - di quella americana, la giapponese un terzo. Nessuna delle due sfidanti asiatiche ha un sistema finanziario paragonabile a quello degli Usa, né la proiezione internazionale. Eurolandia avrebbe qualche chance in più, ma la sua moneta unica ha un ruolo soltanto regionale e non ha l'ambizione - costosa, come mostra il doppio deficit americano - di allargare la propria sfera d'influenza.
La strada da seguire, se si scarta quella verso Utopia, sembra essere una sola: una nuova Bretton Woods, con la creazione di una valuta mondiale sganciata dai destini e dai capricci di un singolo paese, simile a quella proposta negli anni 40 da John Maynard Keynes. Anche questa è però una finta soluzione, perché sposta semplicemente il problema: chi potrà assumere l'iniziativa e la leadership in un negozionato di tale portata? Neanche gli Stati Uniti di Barack Obama sembrano esserne in grado.