Gli articoli di Franco Debenedetti e di Paolo Ielo sul Sole 24 Ore (rispettivamente domenica scorsa e ieri) e l'intervento di Paul Betts sul Financial Times dell'11 marzo pongono molti interrogativi e sollecitano una riflessione più ampia sul tema del decreto legislativo 231/01 e dei modelli organizzativi.
L'adozione di un modello organizzativo richiede alle imprese notevoli investimenti sia economici che operativi. I costi di progettazione e attuazione di procedure e controlli sono ingenti. Non solo, l'attuazione di un modello comporta una maggiore burocrazia nelle attività di impresa, con costi ancora più rilevanti.
Tuttavia, le imprese credono che l'investimento - economico e organizzativo - che affrontano consentirà di migliorare la governance, prevenire la commissione di illeciti e ottenere, nel caso in cui il reato sia comunque commesso, un riconoscimento in sede processuale di una scelta organizzativa virtuosa.
L'idoneità di un modello a prevenire un reato non equivale, infatti, al concreto impedimento dell'illecito. Può accadere che, anche in presenza di un modello efficace, un reato possa essere commesso. Lo stesso decreto 231 lo ammette esplicitamente. Ciò si verifica quando un dipendente, o anche lo stesso vertice, aggiri i controlli previsti dal modello, frodando la società. In questi casi il decreto 231 prevede che la società non sia responsabile del reato, del quale rispondono soltanto le persone fisiche che lo hanno commesso.
Proprio per queste ragioni la valutazione dei giudici non può limitarsi al mero accertamento del fatto illecito, ma deve anche verificare l'esistenza del modello organizzativo e valutarne l'efficacia. Si tratta, com'è evidente, di valutazioni che richiedono specifiche competenze economiche e aziendalistiche, che sarebbero di certo agevolate da scelte organizzative mirate alla creazione, presso un numero selezionato di tribunali, di pool di magistrati specializzati. In questi casi, infatti, il giudice deve stabilire se, all'epoca dei fatti, il modello era stato adottato, le procedure e i controlli previsti erano idonei a prevenire reati della stessa natura di quello commesso e se queste procedure e controlli erano stati poi attuati.
E ciò deve accadere in qualsiasi fase del processo: da quella cautelare fino alla sentenza. Anzi, proprio in sede cautelare la valutazione dei modelli organizzativi - oltre, ma questo è ovvio, della presenza di effettive esigenze cautelari - deve essere quanto più approfondita possibile.
L'interdizione dall'esercizio dell'attività o anche il commissariamento, se applicati in via cautelare, potrebbero rendere inutile la successiva valutazione del modello ai fini della condanna o dell'assoluzione, perché l'impresa potrebbe a quel punto avere già chiuso da tempo. Questo equivarrebbe di fatto a una vera e propria sentenza di condanna anticipata, in assenza di un processo e di tutte le sue garanzie.
Molti magistrati sono consapevoli della delicatezza di questa materia e della necessità di svolgere analisi approfondite sui modelli organizzativi, riconoscendone l'efficacia esimente in presenza dei requisiti previsti dalla legge e dalle linee guida delle associazioni di imprese. In questo senso la sentenza del Tribunale di Milano dello scorso novembre ha rappresentato un importante - e atteso - riconoscimento degli sforzi organizzativi di un'impresa.
Un atteggiamento diverso - contrario peraltro alla volontà del legislatore della 231 - potrebbe determinare l'abbandono da parte delle imprese dei modelli organizzativi, con una perdita netta per tutti: per la cultura dei controlli interni e della buona governance, per il mercato e per le stesse imprese.
* Marcella Panucci è direttore Affari legislativi di Confindustria