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FED E CONGRESSO / Chi ha paura di una banca centrale indipendente

di Luigi Zingales

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1 dicembre 2009

La commissione finanze della Camera americana ha approvato la scorsa settimana, con 43 voti a favore e 26 contrari, un emendamento promosso da Ron Paul, repubblicano ex candidato alla Casa Bianca, che impone alla Federal Reserve di essere regolarmente monitorata dal Government accountability office. Questa decisione ha suscitato la reazione indignata della maggior parte del mondo accademico americano, che vede in questa supervisione un cavallo di Troia per minare l'indipendenza della banca centrale. Preoccupati dalle possibili conseguenze economiche, alcuni economisti hanno iniziato una raccolta di firme contro questo emendamento. «La teoria economica e una grande quantità di lavoro empirico – recita la loro petizione – forniscono forte sostegno a favore dell'indipendenza della banca centrale nel condurre la politica monetaria. Assoggettare banche centrali alle pressioni politiche di breve periodo mina la credibilità dell'impegno a mantenere l'inflazione bassa e stabile, aumentando il livello e la volatilità dell'inflazione, dei tassi di interesse e della disoccupazione».

I miei colleghi hanno ragione ad essere preoccupati. Da quando le valute hanno abbandonato qualsiasi riferimento, anche indiretto, all'oro, il loro potere di acquisto è legato unicamente alla credibilità delle banche centrali che le emettono. Una grossa minaccia a questa credibilità viene dal potere politico, che spinge sempre per una politica monetaria espansiva perché più interessato ai momentanei guadagni in termini di consenso offerti da questa politica, piuttosto che ai suoi costi di lungo periodo in termini di inflazione e disoccupazione. È per questo che dopo l'elevata inflazione degli anni Settanta tutti i paesi sviluppati hanno cercato di rendere le banche centrali il più possibile indipendenti dal potere politico, con ottimi risultati. Grazie a questa indipendenza gli ultimi venticinque anni sono stati caratterizzati da un'inflazione bassa e stabile.

Ma la reazione degli economisti ignora completamente il motivo per cui l'emendamento di Ron Paul ha trovato così ampio consenso in Congresso. Negli ultimi diciotto mesi la Fed ha smesso di occuparsi puramente di politica monetaria: si è messa a fare politica fiscale.

Quando è intervenuta per salvare Aig (o meglio le controparti che si erano assicurate con Aig), la Fed ha trasferito risorse dai contribuenti alle banche. Quando ha deciso di abbassare i tassi d'interesse a zero per permettere alle banche di rimpinguare il proprio capitale, la Fed ha trasferito risorse dai risparmiatori alle banche. Quando ha deciso di comprare mille miliardi di dollari di titoli legati ai mutui per tenere bassi i tassi sui nuovi mutui e sostenere i prezzi delle case, la Fed ha trasferito risorse dai contribuenti ai possessori di case (e alle banche che li avevano finanziati). Si può discutere sull'opportunità di queste decisioni, ma non si può negare che si tratti di una forte redistribuzione di risorse, simile a quella che generalmente avviene attraverso le imposte e la politica industriale. In un paese democratico la leva fiscale non può essere affidata a un'autorità tecnica che non risponde agli elettori, tantomeno negli Stati Uniti, che sono nati sul sacrosanto principio di "no taxation without representation."

L'errore della Fed non è stato tanto quello di aver preso queste decisioni, ma di fare lobbying per conquistarsi il diritto a continuare a prenderle. Lungi dal voler limitarsi alla sua competenza primaria (la politica monetaria), la Fed ha fortemente sostenuto l'iniziativa dell'amministrazione Obama di attribuirle il ruolo di regolatore sistemico (e salvatore di ultima istanza). Contemporaneamente, la banca centrale ha fortemente osteggiato la proposta di trasferire a una agenzia ad hoc la protezione dei consumatori. In poche parole, la Fed sta cercando di accaparrarsi il massimo potere possibile, suscitando giustamente le preoccupazioni del legislatore. Ad aumentare questi timori ha involontariamente contribuito un recente libro sulla crisi, "In Fed we trust" ("Abbiamo fiducia nella Fed"). Scritto dall'inviato del Wall Street Journal presso la banca centrale, il libro dipinge in termini molto positivi lo sforzo di Ben Bernanke per salvare il paese dagli abissi di una nuova depressione. Nel farlo, però, inevitabilmente attribuisce alla Fed e al suo governatore un ruolo (e quindi un potere) enorme, tanto che il sottotitolo del libro recita «come la Fed è diventata il quarto potere dello stato».
Una banca centrale così potente deve essere supervisionata dal potere politico: ne va di mezzo la democrazia. Ma una supervisione politica può essere estremamente pericolosa per la politica monetaria. A differenza della banca centrale europea, la Fed ha un doppio mandato: non solo la stabilità dei prezzi, ma anche l'occupazione. Con la disoccupazione al 10,2%, pressioni politiche per alimentare l'inflazione non sono un rischio, sono una certezza. Per tutelare la propria indipendenza nella politica monetaria la Fed deve abbandonare ogni velleità a ricoprire altri ruoli. È meglio fare una cosa sola, ma farla bene.

1 dicembre 2009
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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