La spedizione dei Mille, di cui il presidente Napolitano si appresta a celebrare il 150° anniversario parlando dallo scoglio genovese di Quarto, riveste una varietà di significati storici indiscutibili.
L'avventurosa impresa militare di Garibaldi regalò all'Italia l'unità, dopo secoli di frammentazione, declino, sudditanza a poteri stranieri. Le regalò un'unità costruita dal basso, per iniziativa popolare e in qualche modo rivoluzionaria, di contro all'unificazione dall'alto che era stata propria di stati come la Francia, la Spagna, la Gran Bretagna, e della Germania stessa in quegli anni intorno al 1860. Ancora, l'epopea dei Mille coronò un progetto di sviluppo particolarmente serio e articolato: il progetto di Cavour, fatto di liberalismo, di modernizzazione, di laicità, di senso dello stato.
Non c'è dunque ragione alcuna, 150 anni dopo, per "parlar male di Garibaldi"? E quelli che lo fanno - a cominciare dai leghisti del quotidiano La Padania, per continuare con la pittoresca schiera degli storici (o pseudo-storici) neo-borbonici e neo-guelfi - rappresentano un'improbabile quanto incorreggibile armata Brancaleone di bastian contrari, che piegano la realtà del passato alle logiche del presente, le meraviglie della storia alla paccottiglia della polemica? Insomma, la pochezza del discorso culturale "anti-garibaldino" è tutta contenuta nella boutade del neoconsigliere regionale lombardo Renzo Bossi, che ha ufficialmente proclamato di non tifare per la nostra Nazionale di calcio?
In realtà, un discorso retrospettivo sull'impresa dei Mille merita di più e di meglio che questo. E proprio la ricorrenza del 150° anniversario può rappresentare un'occasione per celebrare, sì, ma a ragion veduta: sforzandosi di pagare un pedaggio minimo alla passione retorica, un tributo massimo alla ragione critica.
In altre parole, bisognerebbe oggi sottrarsi alla tentazione - a ben vedere, quasi ridicola: eppure diffusa nell'arena italiana - di pronunciarsi per Garibaldi o contro Garibaldi come se l'eroe dei Due mondi fosse ancora vivo e lottasse insieme a noi, con la sua barba e i suoi baffi e i suoi stivali e la sua camicia rossa. «Signori (viene da dire, parafrasando una celebre battuta di Woody Allen), Garibaldi è morto, e noi ci sentiamo poco bene».
I limiti storici della spedizione dei Mille risultano altrettanto indiscutibili dei suoi meriti. Dopo il 1860, lo slancio democratico delle camicie rosse di Garibaldi presto si infranse contro la realpolitik dell'Italia sabauda, trasformando gli eroi di Marsala in "sovversivi" schedati dalla polizia. Ma il movimento garibaldino implose anche dall'interno, e la metamorfosi di certi incendiari in pompieri (il siciliano Crispi in testa) diede primo alimento al fenomeno, divenuto poi proverbiale, del "trasformismo" politico italiano. Soprattutto, dopo la frettolosa epopea semestrale dei Mille, il Mezzogiorno venne "pacificato" attraverso un'opera pluriennale di repressione militare che sarebbe passata alla storia sotto l'eufemismo di lotta contro il brigantaggio, mentre fu vera, terribile, spietata guerra civile.
L'unità d'Italia venne battezzata con il sangue non solo della manciata di garibaldini che caddero durante la spedizione dei Mille, ma delle molte migliaia di ex soldati borbonici, di renitenti alla leva, di semplici contadini delle province meridionali, che caddero dal 1861 al 1865 sotto i colpi del regio esercito: trauma originario dell'Italia unita, che i mielosi slogan odierni sulla "memoria condivisa" non devono cancellare. Trauma che va ricordato con altrettanta enfasi di quella con cui si ricordano tutte le cose buone che i garibaldini avventurosamente traghettarono verso il Mezzogiorno d'Italia: un sistema politico costituzionale; una scuola laica, obbligatoria e gratuita; un'idea e una pratica del libero mercato; un programma di infrastrutture moderne.
Fu una ferita, quella della lotta contro il brigantaggio, che si sarebbe rimarginata soltanto cinquant'anni dopo, ma a prezzo di una nuova carneficina: il sacrificio di molte decine di migliaia di contadini meridionali nelle trincee delle Dolomiti e del Carso, cioè nell'inferno della prima guerra mondiale. Fu una ferita che contribuisce a spiegare - i tempi della storia sono lunghi, sorprendentemente lunghi - le difficoltà strutturali incontrate dallo stato italiano nel controllo del territorio meridionale, in Sicilia, in Calabria, in Campania. E fu una ferita cui la storia del Novecento avrebbe tanto più faticato a rimediare, paradossalmente, in quanto il tragico lavacro di una nuova guerra civile (quella del 1943-45) investì l'Italia del Centro-Nord, ma risparmiò l'Italia del Sud: sottraendo alle regioni meridionali, insieme con l'epos della Resistenza, l'ethos di una rinascita della patria.
Così, non c'è bisogno di essere leghisti, né di sentirsi borbonici, per chiedere al 150° anniversario della spedizione dei Mille di valere da memento critico piuttosto che da momento retorico. Oggi, commemorare Garibaldi può e deve servire da promemoria dell'incompiuto almeno altrettanto che da celebrazione del realizzato. Per ricordarci come, nell'Italia dell'ultimo secolo e mezzo, il processo di costruzione dello stato sia stato intralciato da una concezione privatistica della cosa pubblica che ancora riconosciamo ai vertici delle nostre istituzioni, e che è totalmente estranea sia alla generosità degli ideali garibaldini, sia alla qualità del modello cavouriano. E per ricordarci come, nell'ultimo secolo e mezzo, il processo di costruzione della nazione abbia risentito di spinte e controspinte variamente virtuose o viziose, ma comunque irriducibili alla logica anglosassone del right or wrong, my country: il richiamo dei mille campanili, la memoria delle tante capitali, le alterne seduzioni dell'internazionalismo, la dinamica dell'integrazione europea.
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