Non occorre molta immaginazione per capire che al termine della visita a Parigi di Berlusconi l'accento va posto sui programmi nucleari e relative intese, piuttosto che su certe confuse teorie neo-presidenzialiste.
Il presidente del Consiglio tiene molto allo sviluppo del progetto nucleare franco-italiano, sa che è un messaggio forte rivolto all'opinione pubblica. In questo momento è quello che più gli interessa. Ci sono pochi dubbi che oggi a Parma, di fronte agli industriali, parlerà soprattutto di fisco e di temi economici. Il sottinteso politico, se vogliamo cercarne uno, consisterà nel porsi una volta di più come interlocutore del mondo delle imprese, sforzandosi di limitare lo spazio di manovra e il consenso di cui gode la Lega dopo le vittorie in Veneto e Piemonte.
Sull'altro versante, quello istituzionale, il premier si è divertito, potremmo dire, a gettare sassi nello stagno. È chiaro che il presidenzialismo «alla francese» non è quello descritto da Berlusconi, nonostante si trovasse a Parigi. L'idea di trasformare fino in fondo il capo dello Stato in una figura di parte, eleggendolo nello stesso giorno in cui si elegge il Parlamento, con la legge oggi in vigore in Italia, non ha nulla da spartire con il modello francese. Tanto più che il risultato sarebbe un presidente della Repubblica eletto da una minoranza dell'elettorato. Altro che garanzie istituzionali e rafforzamento del Parlamento.
Tutto questo Berlusconi non può non saperlo. È probabile quindi che le sue parole rispecchino un sostanziale scetticismo circa la prospettiva concreta di cambiare la Costituzione in senso presidenzialista. Scetticismo rafforzato dal fatto che il presidente del Consiglio coltiva, come è noto, una robusta e antica vena di diffidenza verso gli accordi con l'opposizione. E naturalmente vede con particolare fastidio l'attivismo di Gianfranco Fini, il suo porsi come mediatore nei confronti del centrosinistra.
Per cui il bengala lanciato nel cielo parigino serve per il momento ad allontanare, non ad avvicinare, qualsiasi ipotesi di dialogo con il centrosinistra. Poi si vedrà. Nell'agenda del governo, del resto, non mancano gli spunti innovativi. A cominciare dall'attuazione del federalismo fiscale.
Quel che è certo, Berlusconi non vuole perdere il contatto con l'opinione pubblica sugli argomenti «caldi». Per lui il presidenzialismo è soprattutto una bandiera politica da agitare quando serve e da collegare al suo carisma personale: non è materia per una complessa trattativa parlamentare e tantomeno per un'esercitazione politologica. Il rinnovamento dello stato non gli sembra un obiettivo da condividere con l'opposizione. Anche qui, quello che conta ai suoi occhi è la portata mediatica dell'operazione, più che il risultato finale. Piuttosto che un complicato compromesso istituzionale, da cui si sentirebbe messo alle strette, è facile supporre che preferirebbe un giorno il ritorno alle urne. Anche se questo è per ora un argomento-tabù, da tenere nel cassetto mentre si alimenta il discorso virtuoso sui tre anni dedicati alle riforme.
In ogni caso Berlusconi si preoccupa di evitare che altri nella sua coalizione (i leghisti, lo stesso presidente della Camera) siano percepiti come i riformatori autentici, nonché i più capaci di tessere una tela con la minoranza. Il che non significa che le riforme siano impossibili, ma vuol dire che tutti i soggetti interessati, compreso il Pd, dovranno misurarsi con il massimo impegno e senza riserve mentali.