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È la fede che può salvare la politica

di Bruno Forte

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10 dicembre 2009

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È qui che la tradizione cristiana ha potuto inserirsi per portare il suo contributo alla politica: e lo ha fatto nella maniera più alta elaborando l'idea di "persona". Definita nell'ambito del dibattito cristologico e trinitario dei primi secoli, questa idea diventa la chiave di volta della concezione teologica della politica, perché assomma in sé due campi in tensione reciproca, quello della singolarità e quello della relazione. Nella dialettica fra l'uno e l'altro, la persona viene a situarsi come soggetto assolutamente unico (esse in se), che può liberamente destinarsi all'altro, stabilendo rapporti di reciprocità solidale (esse ad). È nell'unità di queste relazioni, nella loro reciproca interazione, che la persona si offre come il soggetto libero e consapevole della propria storia, posto sulla frontiera fra esistenza storica e valore morale, in grado di saldare i due campi.
Quanto l'"invenzione" cristiana della persona sia stata gravida di conseguenze per realizzare correttamente la mediazione politica, vorrei mostrarlo riferendomi ad un caso esemplare: quello della Costituzione della Repubblica italiana, elaborata sotto la decisiva influenza del pensiero personalista d'ispirazione cristiana, soprattutto a partire dal cosiddetto Codice di Camaldoli, messo a punto durante una settimana di studio di giovani cattolici tenutasi nel luglio 1943. L'idea dell'essere in sé della persona (esse in) è alla base del principio della sua singolarità e infinita dignità, vero baluardo contro ogni possibile manipolazione degli esseri umani.
La Costituzione recepisce questo principio quando afferma che "la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo" (art. 2). L'uso del verbo "riconoscere" mostra come questi diritti siano considerati preesistenti rispetto alla loro configurazione giuridica, non creati dallo stato, obbliganti anzi di fronte ad esso. Da una simile impostazione, frutto anche della reazione ai soprusi del totalitarismo, derivò l'esplicitazione del principio d'uguaglianza, secondo cui tutti i cittadini, senza distinzione, sono uguali davanti alla legge (uguaglianza formale: art. 3, comma 1) e devono essere in grado di sviluppare pienamente la loro personalità sul piano economico, sociale e culturale (uguaglianza sostanziale: comma 2).

L'importanza e l'attualità di queste conseguenze sono facilmente intuibili nel campo della tutela delle minoranze, dei lavoratori, delle donne, dei diversamente abili, e oggi in modo speciale nel rispetto dovuto alla persona degli immigrati, quale che sia il loro stato giuridico di cittadinanza. L'idea, poi, dell'essere per sé e per altri della persona (esse ad) esprime il movimento di auto-determinazione e di finalizzazione che la caratterizza, e perciò il ruolo determinante che hanno la consapevolezza e la libertà nei suoi atti. Nel conoscere e nel decidersi la persona è responsabile verso se stessa, come verso gli altri.
Sta qui il fondamento del principio di responsabilità, che la Costituzione recepisce anzitutto affermando il valore del pluralismo (delle formazioni sociali: art. 2; degli enti politici territoriali: art. 5; delle minoranze linguistiche: art. 6; delle confessioni religiose: art. 8; delle idee: art. 21, eccetera). Il concetto di responsabilità è parimenti alla base del cosiddetto principio di laicità, in forza del quale lo stato e le comunità religiose sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani (art. 7) e tutte le confessioni sono egualmente libere davanti alla legge (art. 8).
Il sapersi responsabili verso se stessi e verso altri fonda l'esigenza del rispetto del diverso e della tutela dei suoi diritti. Nessun uomo è un'isola e a nessuno è lecito disinteressarsi del bene comune. Questo costitutivo essere relazionale della persona si esprime nel principio di solidarietà, accolto parimenti nel dettato costituzionale: «La Repubblica... richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2, comma 2). Il valore della solidarietà si estende dalle persone ai gruppi, in primo luogo alla famiglia, fino alla grande comunità dei popoli e alla mondialità. In questa linea il principio di solidarietà esige il ripudio della guerra e l'impegno prioritario a favore della pace (cfr. l'art. 11).
I dinamismi della persona e della comunità delle persone, richiamati nella espressione che ad essi ha dato la Costituzione italiana, si intersecano continuamente fra loro. Tenere insieme questi aspetti è il difficile equilibrio, cui deve tendere l'esistenza nella visione personalista e al cui servizio deve porsi la mediazione politica: «Nel raccogliersi per ritrovarsi, nel dispiegarsi per arricchirsi e ancora ritrovarsi, nel raccogliersi di nuovo attraverso la liberazione dal possesso, la vita della persona - sistole e diastole - è la ricerca fino alla morte di una unità presentita, agognata e che mai si realizza... Tutto ciò assomiglia piuttosto a un richiamo silenzioso, in una lingua che richiederebbe tutta la nostra vita per essere tradotta: per questo il termine di vocazione gli conviene meglio di qualunque altro» (Emmanuel Mounier).

Corrispondere a una tale vocazione rende la mediazione politica tanto esigente, quanto necessaria: una sfida verso cui tenersi sempre pronti, una forma di carità alta, in cui si prepara l'avvenire di tutti. Sta qui l'accoglienza autentica del grande apporto delle radici cristiane alla convivenza civile, in forza del quale Dio, storia e politica non sono estranei l'uno all'altro, ma si relazionano nella costruzione di un'umanità più vera, buona e felice per tutti. Un apporto che ha dato frutti straordinari nella ricostruzione post-bellica del paese e di cui mi sembra ci sia urgente bisogno anche di fronte alla crisi in atto del gioco delle maschere di molto attuale agire politico. La storia e la politica nell'orizzonte dell'accoglienza di Dio non sono meno, ma più umane, non meno, ma più giuste e realizzanti per tutti. Anche così Dio è vivo nell'oggi, e con Lui o senza di Lui cambia tutto!

10 dicembre 2009
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