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Il fantasma di un piano Urss e l'Europa 2010

di Guido Tabellini

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10 gennaio 2010


Nei giorni scorsi sia Herman van Rompuy, il nuovo presidente dell'Unione europea, sia Zapatero, capo del governo spagnolo che ha la presidenza di turno del Consiglio europeo, hanno messo la crescita economica al centro delle sfide che la Ue dovrà affrontare nei prossimi anni. Hanno fatto bene. Sappiamo che il punto di minimo del ciclo è stato toccato e che è in corso una ripresa ancora incerta. Ma le incognite principali riguardano le tendenze di medio-lungo periodo.
A ottobre 2009 il Fondo monetario internazionale stimava che, in seguito alla recessione, la crescita potenziale dell'area euro nel 2014 sarà ancora di un punto percentuale sotto la sua deludente media di lungo periodo. Probabilmente è una stima troppo pessimistica. Ma è comunque vero che la recessione ha ulteriormente intaccato le già deboli capacità di crescita delle economie europee nel medio periodo. L'eccesso di capacità produttiva e la stretta creditiza freneranno gli investimenti per lungo tempo, il deterioramento nelle finanze pubbliche renderà più difficile rimuovere le distorsioni fiscali e di altro tipo, i rapidi mutamenti in corso nel resto del mondo imporranno anche alle economie europee di ristrutturarsi in modo più radicale di come appariva prima della crisi.
Dieci anni fa nasceva la "strategia di Lisbona" per rinvigorire la crescita e fare dell'Europa «la più dinamica economia al mondo basata sulla conoscenza entro il 2010». Era ovvio fin da subito che obiettivi così roboanti non sarebbero stati raggiunti. Ma ciò che è stato particolarmente deludente è stato l'andamento della produttività del lavoro. Tra il 1987 e il 1995, la produttività per ora lavorata nei 15 stati della vecchia Ue era cresciuta in media del 2,2% all'anno, quasi il doppio che negli Stati Uniti. Tra il 2000 e il 2008, i rapporti si sono invertiti: la crescita della produttività nella Ue è stata dell'1,1% all'anno, quasi la metà che negli Stati Uniti. Anche su questo fronte, la recessione del 2009 ha aggiunto difficoltà. L'occupazione europea è calata meno che negli Stati Uniti, il che è positivo. Ma ciò vuole anche dire che la ristrutturazione delle imprese sarà più lenta, e che il flusso di risorse verso i settori più dinamici e le imprese più efficienti sarà meno accentuato. Anche la crescita della produttività sarà quindi più modesta rispetto alla più flessibile economia americana.
Al di là della retorica, la strategia di Lisbona ha fallito perché non ha identificato le priorità per il livello di governo europeo. Il metodo del «coordinamento soffice» ha messo tutto sullo stesso piano, risultando inefficace là dove c'era bisogno di un forte intervento europeo, e inutile dove invece la responsabilità di governo andava chiaramente lasciata alle politiche nazionali. Per correggere gli errori, occorre quindi innanzitutto capire dove è importante avere una politica comune, e dove invece non c'è alcuna esigenza di coordinamento.
I paesi dell'area euro hanno già un'unica politica monetaria, e in molti casi il vincolo è fin troppo stretto. La situazione economica della Germania è ben diversa da quella della Spagna.
Sarebbe un errore chiedere politiche comuni a questi due paesi anche con riferimento alla politica fiscale, o ad altri interventi a sostegno dell'economia. Molti paesi europei hanno anche bisogno di riforme dal lato dell'offerta, in particolare per far funzionare meglio il mercato del lavoro. Ma i vincoli istituzionali e politici sono così diversi tra paesi, che non c'è alcun bisogno di coordinarsi. Anzi, per indurre a scelte che rendano le singole economie più efficienti è meglio la competizione tra sistemi.
Dove invece è necessario un più efficace intervento europeo è nel presidiare ed estendere il mercato unico. Gli aiuti di stato ai settori in difficoltà, dall'auto ai servizi finanziari, hanno inevitabilmente fatto fare dei passi indietro. Ma non si tratta solo di recuperare il terreno perduto. Il mercato unico va rinforzato anche in altri settori cruciali, dall'energia, all'ambiente, alle telecomunicazioni, all'informazione. In questi settori, come nella finanza, completare il mercato unico richiede di trasferire a livello europeo le competenze di regolamentazione, sacrificando la sovranità nazionale. Oltre al mercato unico, occorre anche rinforzare la capacità di fornire beni pubblici a livello europeo. I due settori con maggior rilevanza economica sono probabilmente la ricerca e le infrastrutture.
Nei prossimi mesi, le nuove istituzioni europee dovranno impostare una strategia per affrontare le sfide economiche dei prossimi anni. Per evitare gli errori di Lisbona, sarà bene concentrarsi sulle aree davvero importanti, e su quelle attuare un effettivo trasferimento di sovranità al livello di governo europeo. Il resto è inutile retorica.

10 gennaio 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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