L'euro s'indebolisce e la sirena della svalutazione canta. Se un tempo i nostri capitani d'industria la stavano giustamente a sentire, oggi farebbero meglio a fare come Ulisse: legarsi all'albero, tapparsi le orecchie e continuare a navigare. Il tempo delle svalutazioni competitive è finito. Non tanto perché l'euro non possa ancora perdere terreno, soprattutto nei confronti di valute tenute artificialmente alte come il renminbi cinese. Ma perché i benefici che ne derivano sono pochi ed effimeri.
Il commercio ha ripreso a crescere negli ultimi mesi del 2009, tornando in volume a livelli pre-crisi. Nel lungo gelo della contrazione, il nostro paese ha perso quote di mercato e le previsioni indicano un passo più lento del commercio globale per il biennio 2010-11, dunque la perdita di ulteriori quote. Queste dinamiche hanno poco a che fare con la valuta. Il declino più forte delle esportazioni si è verificato tra ottobre 2008 e giugno 2009, in un periodo in cui l'euro era più debole di oggi.
In queste fasi, la crescita del commercio è determinata dalla domanda finale di beni, che ha ripreso a crescere soprattutto nei mercati emergenti. Una ripresa delle nostre esportazioni richiede un rafforzamento della presenza sui mercati più dinamici. In questo ci potrà aiutare l'euro debole? Non molto. L'indebolimento del cambio potrebbe essere determinante se il prezzo fosse il principale fattore competitivo. Se questo era il caso soprattutto nelle prime fasi dell'espansione della produzione manifatturiera in Asia, oggi la concorrenza è sempre più fondata su altri fattori come qualità, marchio e innovazione che rendono piuttosto labile il legame tra prezzi relativi e domanda dei beni. Le imprese italiane più virtuose hanno rafforzato la propria competitività internazionale negli ultimi anni soprattutto perseguendo strategie diverse dal prezzo.
La conseguenza di questo processo è una relativa terziarizzazione del manifatturiero: qualità, ricerca, branding sono attività con caratteristiche affini ai servizi più che alla manifattura. Come ricordato da Fabiano Schivardi su lavoce.info, la quota degli operai sul totale degli addetti dell'industria è calata drasticamente a partire dagli anni 90 e questo processo ha proprio avuto una forte accelerazione con l'introduzione dell'euro, ossia quando svalutare la lira non era più possibile.
Allora, che cosa devono fare i nostri concreti imprenditori per prosperare in un contesto competitivo sempre più difficile? Abbiamo detto rafforzarsi in mercati lontani con strategie non di prezzo. Facile, ma come? Le riflessioni da fare sono due. La prima è che i costi fissi per esportare sono sempre più elevati. Le imprese piccole fanno e faranno sempre più fatica in questo ambito: per quante siano le virtù del piccolo è bello, il consolidamento dimensionale del sistema produttivo è inevitabile.
La seconda constatazione è che gli investimenti per crescere sul mercato globale portano soprattutto allo sviluppo di beni intangibili: brevetti, qualità dei prodotti, presenza sui mercati, brand. E come fa oggi un'impresa a finanziare una campagna pubblicitaria, o un'espansione commerciale all'estero? La risposta più ovvia, come ancora sostiene Schivardi, è con capitale proprio. Qui tocchiamo il tasto dolente della sottocapitalizzazione del nostro sistema produttivo: correggerlo è certamente un passo necessario per rafforzarne la competitività globale.
Ma forse è possibile anche andare oltre. Il finanziamento degli investimenti intangibili è una classica area soggetta a fallimento di mercato (non se ne fanno abbastanza perché non si riescono a valutare adeguatamente i rischi dell'investimento), dove si potrebbero esplorare nuove forme di collaborazione tra il settore finanziario privato e lo stato. Il nuovo fondo per le piccole imprese potrebbe proprio essere una palestra per sperimentare come uno strumento pubblico-privato possa sciogliere questi nodi strutturali e aiutare le nostre azienda a rafforzare la propria competitività, favorendone la "terziarizzazione" e la crescita.
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