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La via stretta di Napolitano

di Michele Ainis

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10 Marzo 2010

Riepilogando: a Roma il Tar ha acceso il rosso del semaforo sulle liste Pdl, ma il Consiglio di stato potrà rovesciarne il verdetto come un calzino usato. Sempre a Roma nuovo stopo in tribunale, con eventuale coda in Corte d'appello, e poi di nuovo al Tar, e poi in Consiglio di stato. Nel frattempo il Lazio, seguito a ruota dalla Toscana e dal Piemonte, impugna il decreto del governo dinanzi alla Corte costituzionale. Avrebbe potuto farlo il Tar, che viceversa si è comportato come un giudice nordamericano, dichiarando inapplicabile il decreto perché incostituzionale. Peccato che in Italia queste decisioni spettino solo alla Consulta, ma pazienza, anche la geografia ormai è diventata un'opinione. D'altronde c'è sempre tempo perché la questione venga sollevata dal Consiglio di stato, oppure dai giudici ordinari della capitale. E alla fine della giostra può accadere che la Corte costituzionale annulli il decreto con effetto retroattivo, azzerando pure il nostro voto.
Insomma un pasticcio, o per meglio dire un pastone avvelenato per la democrazia italiana. Ma la pietanza più indigesta è quella somministrata al capo dello stato. Sul Quirinale piovono gli anatemi del popolo viola. Di Pietro ventila l'impeachment, benché questo strumento estremo possa adottarsi nei soli casi di alto tradimento e d'attentato alla Costituzione, e benché non risulti agli atti che Napolitano sia artefice di un golpe, né che sia al soldo d'uno stato straniero. È probabile che critiche simili risuoneranno sabato prossimo, durante la manifestazione di piazza del Popolo. Perché ha firmato quel decreto? Perché ne ha attestato la legittimità, lasciandosi smentire in poche ore dai giudici amministrativi? E quale residua autorità potrà esercitare il presidente, se domani gli darà torto pure la Consulta?
Questa critica frontale è figlia a propria volta di un equivoco, lo stesso malinteso che vizia le parole di chi nel centro-sinistra difende il presidente, trasformando la difesa in un'accusa implicita. Come si fa infatti a sostenere che il decreto interpretativo del governo sia uno sfregio alla Costituzione - addirittura un atto eversivo - aggiungendo però che il capo dello stato non ha colpe, perché in quel decreto mancano "evidenti" vizi di costituzionalità? Non è contraddittoria questa memoria difensiva? Certo che sì, ma la responsabilità s'annida nella premessa del ragionamento, nel ruolo di custode della legittimità costituzionale che viene cucito addosso al presidente.
Senonché non è affatto questo il suo mestiere. Napolitano non è una Corte costituzionale di primo grado, rispetto alla corte d'appello con sede alla Consulta. Altrimenti all'organo supremo del nostro ordinamento toccherebbe la stessa sorte di qualsiasi pretore di provincia, le cui sentenze vengono rovesciate dal tribunale di provincia. E del resto quando la Corte costituzionale annulla una legge dello stato (succede varie volte al mese), boccia al contempo una legge promulgata al Quirinale, senza per questo tirare un ceffone in faccia al suo inquilino. Idem se a cadere sotto la scure dell'incostituzionalità sia un decreto legge ovvero un regolamento, anch'essi pur sempre emanati dal presidente di turno.
No, non è la legittimità costituzionale il terreno su cui cammina il presidente. È piuttosto l'opportunità costituzionale, un perimetro dove la politica prevale sul diritto, dove il giudizio non è mai a rime obbligate. Vale nel caso del rinvio presidenziale delle leggi, quando il capo dello stato dice al Parlamento: pensateci un po' meglio, poi se insistete non potrò che promulgare. Vale per il potere di sciogliere le Camere, dove c'è spazio per giudizi di merito, non di validità. D'altronde l'articolo 87 della Carta gli assegna il compito di rappresentare «l'unità nazionale». Tutt'altro che una formula poetica, come qualcuno ha scritto. Ma per restituirle nerbo e linfa il presidente deve farsi sensore dell'opinione pubblica, misurarne le attese. Ha agito così Napolitano controfirmando il decreto del governo: non è forse vero che in quei giorni anche il centro-sinistra auspicava una partita con due squadre in campo? Non è forse vero che una larga parte del paese si ribellava a gare solitarie?
Poi, certo: l'opportunità disegna uno spartito dove conta il timbro dell'esecutore, nonché l'umore del momento. Se Napolitano avesse rispedito al mittente quel decreto - come ha fatto per Eluana - non per questo il suo gesto sarebbe suonato inopportuno. Ma quando giudichiamo a nostra volta gli atti del capo dello stato, dobbiamo ricordarci che si tratta dell'unico organo monocratico del sistema costituzionale. La responsabilità delle sue scelte non annega in quella d'un collegio, sia il Consiglio dei ministri, sia il Senato o il Csm. E la solitudine non è un peso da poco.
michele.ainis@uniroma3.it

10 Marzo 2010
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