Incredibile ma vero, i 200 musei italiani che offrono servizi fatturano 106 milioni l'anno mentre in Francia il Louvre, da solo, sfonda quota 800. Ecco, in un dato citato ieri da Emma Marcegaglia è praticamente riassunto il problema dell'Italia. Paese che "potrebbe" fare moltissimo di più ma che più spesso s'accuccia al ribasso, quasi che un futuro migliore non dipendesse dalle sue scelte.
Invece no, è il momento di reagire e di far leva sui punti di forza di un sistema che tante volte, tra eccellenze private e pubbliche, ha saputo mobilitare le energie per ripartire. Chiamiamole «riforme» o come preferisce il ministro del Welfare Maurizio Sacconi «cambiamenti veri» per non rimanere prigionieri di un «atto legislativo», il discorso non cambia.
Tutto si può fare, meno che accontentarsi di una risalita lenta dopo una caduta rovinosa, a sua volta arrivata dopo quindici anni di crescita bassissima. E vale per tutti: da Nord a Sud, dal governo e dalla maggioranza all'opposizione, dagli imprenditori ai sindacati e ai banchieri.
Sui dati che sono stati resi noti dal Centro studi Confindustria, autore di previsioni dimostratesi realistiche, c'è poco da aggiungere. Ci avviamo ad archiviare un 2009 frutto della Grande Crisi: dunque, prodotto interno lordo a -4,8%, investimenti a -13,1%, esportazioni a -17,3%, deficit pubblico in rapporto al Pil al 5,2%, debito pubblico al 114,8%. Numeri da bollettino di guerra, la stessa che ha rivoluzionato i conti di tutte le economie più forti del mondo compresa in Europa la virtuosa Germania, che vede salire il debito pubblico all'80% del Pil.
Il problema è la coda velenosa della crisi e la tempistica del recupero. Nel senso che si consolidano dappertutto i segnali di una ripresa a geometria variabile che l'Italia (Pil a +0,8% nel 2010) fa più fatica ad agguantare mentre dobbiamo scontare, tra il quarto trimestre 2008 e lo stesso periodo del 2010, un calo dell'occupazione di 700mila persone. Col rischio – mentre è tutt'altro che esaurita l'emergenza credito – di dover mettere in conto una fase di ristrutturazione che porterà a una distruzione di capacità produttiva e a un ulteriore peggioramento del mercato del lavoro.
Insomma, l'Italia deve correre di più se non vuole impiegare quattro, cinque anni solo per tornare ai livelli pre-crisi, risultato di per sé insufficiente. È il potenziale di crescita (che il ministero dell'Economia stima a colpi di "zero-virgola" per i prossimi anni) che va alzato. È qui che bisogna concentrare lo sforzo comune, evitando di accucciarsi al ribasso per non guardare in faccia la realtà di un paese che, quando non è fermo, cresce molto meno di quello che potrebbe.
Il ministro Sacconi dice che «dobbiamo mettere il turbo in modo da uscire dalla crisi migliorati e non rattrappiti». Prospetta un «avviso comune» sulla partecipazione agli utili delle imprese. Si domanda «chi ha preso il credito, Zunino (caso Risanamento, ndr) o il piccolo imprenditore sul territorio?» Chiede più terziario e prospetta regole nuove nella spesa per la formazione. Sollecita i giovani, contro la «retorica della precarietà», affinché si mettano in gioco e accettino magari un lavoro diverso da quello per il quale hanno studiato in vista di un futuro migliore.
Romano Prodi, che ha parlato come economista industriale, osserva che nessuno, ed è un male, fa più studi empirici, sul campo. Che l'Italia si regge e si reggerà sul settore manifatturiero. Che la Cina è «innarrestabile». Che gli ingegneri italiani, risorsa straordinaria, costano la metà di quelli tedeschi. Che le «banche non possono fare opere di carità» e che il futuro sta nei settori dell'energia, dell'ambiente e della sanità.
Ancorché con accenti e soluzioni diverse, i due interventi di ieri di Prodi e Sacconi confermano che restare immobili sarebbe, comunque, l'anticamera di un clamoroso, nuovo tonfo dell'economia. E che una fase di riconversione industriale come quella che (inevitabilmente) si profila, va gestita con un mix di ambizione innovativa e prudente senso di responsabilità, a partire dalla stagione dei contratti che si aprirà, dopo molti anni, sulla base del nuovo modello di relazioni industriali.
In un quadro che la presidente di Confindustria Marcegaglia definisce di «ripresa insidiosa» non è un'operazione facile, tanto più se si considerano i vincoli posti dal debito pubblico e il clima politico di permanente campagna elettorale che certo non aiuta a focalizzare i problemi del paese. Ma bisogna comunque, e forse a maggior ragione, metterci le mani e la testa, con intelligenza e fermezza.
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