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IDENTITA' DELLA SINISTRA / A chi interessa il conflitto?

di Franco Debenedetti

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11 agosto 2009


Sembrerebbe impossibile attirare ancora l'attenzione con una legge sul conflitto di interessi. Invece è ciò che è riuscito a Walter Veltroni: non per il contenuto della sua proposta, ma per il fatto di averla presentata. Ci si chiede infatti: perché l'ha fatto? Perché proprio ora?
Questa maggioranza pensava di aver chiuso il problema nel luglio del 2004, approvando la legge Frattini: che cosa fa pensare che sia interessata a riscriverla? E quanto all'opposizione, dall'epoca della Bicamerale in avanti, aveva fatto del conflitto d'interessi argomento di accuse e divisioni, accuse di neghittosità (vedi alla voce inciucio) per non averlo risolto, e divisioni a chi sparava la norma più giacobina: che cosa fa pensare che abbia, se non i numeri per approvarla, almeno l'unità per sostenerla?
Se Berlusconi verrà sconfitto nelle elezioni che si dovrebbero tenere nel 2013 (ma se fosse un paio di anni prima non cambierebbe granché) e se il governo che allora si formerà durerà non i 18 mesi delle precedenti edizioni, ma 5 anni - cosa che non sarà certo Veltroni a mettere in dubbio - si sarà nel 2018: tutti saremmo felici se quel giorno avessimo risolto i nostri problemi veri, dal debito al Mezzogiorno, dalla crescita alla scuola, e irrisolto restasse solo quello - a quel punto virtuale - delle cariche politiche che può ricoprire chi allora controllerà Mediaset. Ma anche chi ha «un patrimonio superiore a 30 milioni di euro» o «partecipazioni in rilevanti settori strategici».
È ovvio: la gara non è a chi ha la vista più lunga, Veltroni non si preoccupa del 2018. E neppure di televisione e di pluralismo, che a quel momento avranno trovato altri assetti. Il conflitto d'interessi è un problema reale ma senza soluzione: infatti questa è o banale perché inutile, o impossibile perché controproducente. Ma finché esiste se ne può parlare. E il modo con cui lo si fa non è indifferente.
Veltroni sceglie una linea ragionevole, di basso impatto polemico: solo nella relazione d'accompagnamento gli sfugge un punto esclamativo, là dove lamenta che in Italia per la gestione del conflitto sia «indispensabile l'intervento di un soggetto terzo», anziché del Parlamento, come in altri Paesi.
Dei tre strumenti legislativi per sbarrare, a chi si trova in conflitto d'interesse, la strada alle supreme magistrature dello Stato, vale a dire l'incompatibilità, l'ineleggibilità, l'incandidabilità, Veltroni sceglie la prima, la più soft, che meno lede il diritto costituzionale all'elettorato passivo. Definisce le situazioni d'incompatibilità in modo ampio quanto basta per evitare l'accusa di legge ad personam, ma non tanto da escludere outsider a cui potrebbe essere utile far ricorso.
La procedura per la risoluzione del conflitto è un scambio molto british di documenti tra l'"incompatibile" e l'Antitrust. Così, quando si arriva alla fine, tutto è chiaro: Veltroni non ha scritto una legge, ha disegnato un ritratto, quello di un'opposizione seria, moderata, ragionevole. Un'opposizione che fa uso delle dichiarazioni dei redditi anziché delle rivelazioni delle veline, della concorrenza tra aziende anzichè tra escort. Un'opposizione fondata sul diritto anziché sul moralismo.
Ma è proprio qui che il documento appare in tutta la sua debolezza. E non tanto per l'ovvia disparità di potenza comunicativa tra un progetto di legge destinato a restare in un cassetto e quello di argomenti pruriginosi sventolati da mesi; quanto perché non riconosce che per la sinistra la criticità del rapporto tra morale e politica risale a ben prima della discesa in campo del Cavaliere e si manifesta in campi molto più vasti del suo erotismo.
Il significato del progetto Veltroni è che, chiusa questa parentesi anomala di disordini etici e giuridici, tappata una falla nell'impianto legislativo per impedirne il ripresentarsi, si possa tranquillamente ritornare all'heri dicebamus. Dove sta questo ieri? A quale punto della storia Veltroni vuole ricongiungersi? Al '92 di Mani Pulite? All'89, il crollo del muro di Berlino, a cui si riferisce Angelo Panebianco («Dal moralismo al riformismo», sul Corriere della sera del 3 agosto)? O molto più indietro, ai lunghi anni 70 del "Duello a sinistra"?
Una "visione morale della politica" c'è sempre stata, nella sinistra; era quella che Eugenio Scalfari ammirava in Ugo La Malfa ed Enrico Berlinguer (estendendo, sullo slancio, l'ammirazione anche a Ciriaco De Mita).
Qual era il presupposto del "patto dei produttori" se non una garanzia prestata all'alleanza tra le "forze sane" della nazione, contro l'"avventurismo" - quando non peggio - di Craxi? È da lì che si deve partire per capire l'origine dell'attuale "moralismo di sinistra". E della sua singolare anomalia: per cui mentre il moralismo è un irrinunciabile strumento del populismo, nel caso italiano esso è praticato da coloro che si considerano l'élite intellettuale del Paese, usi a praticare la politica contro l'antipolitica.
S'illude la sinistra se pensa che sarà lei a governare un rovesciamento di fronte nel dopo-Berlusconi: le sarà già complicato riuscire a far valere le proprie carte. È difficile che in quelle circostanze serva il moralismo che oggi ne costituisce la principale componente identitaria, né certo basterà a controbilanciarlo una proposta moderata sul conflitto d'interessi. È probabile infatti che l'una e l'altro risulteranno estranei rispetto agli interessi delle forze politiche in campo. Così come estranei lo sono già oggi rispetto agli interessi del Paese.

11 agosto 2009
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