Quando il ronzio delle zanzare d'agosto sarà un ricordo, delle "gabbie salariali" resteranno solo le sbarre mentali che inducono – stagionalmente – a un confronto-scontro su un tema sempre mal posto e peggio risolto: come arrivare a una migliore calibratura dei salari. Non basta invocare il mitico «territorio»: è vero che usando l'indicatore-tazzina (un po' come si usa nel mondo il BigMac index, vale a dire il prezzo di un hamburger) si scopre che il costo di un caffè oscilla da 1,2 euro di Milano ai 70 centesimi di Napoli. Ma è altrettanto vero che non sono omogenei i costi dei servizi sociali, dai trasporti agli asili e che sono molto diversi i tassi di disoccupazione (dove è maggiore l'offerta di manodopera il bene-lavoro si "deprezza" per meccanismi naturali, anche se l'attività lavorativa non è mai una merce). In alcune zone ci sono grandi e piccole imprese mentre altrove solo piccole aziende o piccolissime botteghe quando non l'unica "salvezza" del posto pubblico: l'Italia operosa non è mai uguale a se stessa. Ma non è il territorio il vero ancoraggio per rendere ottimali i salari. Lo hanno ben compreso le parti sociali che hanno firmato in luglio l'accordo per la revisione delle regole contrattuali: ciò che conta è la produttività. Le retribuzioni sono ottimali quando riescono ad assicurarsi una parte congrua della quota di valore realizzata azienda per azienda. Solo così – e per una via naturale di redistribuzione del reddito – si disegna la vera mappa delle diversità salariali che è poi anche la geografia dell'equità. Per questo sarà importante il test autunnale per i nuovi contratti in via di rinnovo a partire da quello delle telecomunicazioni (gli altri sono alimentaristi e metalmeccanici). Nel frattempo è auspicabile che anche chi finora non ha sottoscritto la riforma (la Cgil) possa ripensarci. Del resto, la nuova confusione sulle gabbie salariali è un motivo in più per dare ancora maggiore solidità a quelle nuove regole. E per togliere la produttività dalle gabbie in cui è stata imprigionata finora.