Il Sole 24 Ore
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11 aprile 2010

RIFORME DIFFICILI / Un governo per due magistrati

di Sergio Luzzatto

Considerati i burrascosi precedenti del rapporto di Silvio Berlusconi con la magistratura italiana, è forte la tentazione di liquidare l'attuale progetto governativo di riforma della giustizia come un mero regolamento di conti: il sospirato pretesto, per il presidente del Consiglio, di mettere in riga chi lo "perseguita" da quindici anni. Eppure, soggiacere a una simile tentazione sarebbe un errore. Non già perché il progetto di riforma prescinda da qualunque retropensiero di Berlusconi, ma perché l'importanza della questione va ben oltre la figura di Berlusconi medesimo.

I due elementi portanti della riforma consistono in una separazione netta delle carriere dei magistrati e in un riassetto radicale del loro organo di autogoverno. In entrambi i casi, si tratta di materia costituzionale. Già questo dovrebbe bastare per prendere la questione sul serio, e al lume della ragione anziché della passione. Ma l'esercizio di una critica assennata dovrebbe venire da una considerazione ulteriore: dalla possibilità - logicamente plausibile, si deve pur ammetterlo! - che il progetto di riforma non sia tutto giusto o tutto sbagliato. E dunque dall'opportunità di esercitare, su quel progetto, un diritto d'inventario.

È forse inesatto (oltreché banale) il vecchio adagio ciceroniano secondo cui la storia è maestra di vita. Nondimeno, uno sguardo comparativo alla storia dei sistemi giudiziari nell'età contemporanea permette di individuare qualche punto di riferimento utile per orientarsi nel polverone italiano dell'oggi. In particolare, tale sguardo autorizza a sostenere che, dei due elementi portanti dell'attuale progetto di riforma della giustizia, uno sia condivisibile, l'altro no. È condivisibile il principio di una netta separazione delle carriere di giudice e di pubblico ministero. Non è condivisibile il principio di un riassetto radicale del Consiglio superiore della magistratura.

Con la Francia, l'Italia è rimasto l'ultimo dei grandi paesi democratici dove esista un unico corpo di magistrati giudicanti e requirenti: esito postremo di una lontana stagione comune, l'età di Napoleone. Senonché proprio questa ascendenza ci ricorda quanto l'unicità della magistratura come corpo sia storicamente associata al trionfo di regimi autoritari piuttosto che liberali. Una riprova è venuta, nell'Italia del Novecento, dal ventennio fascista. Il regime di Mussolini tenne ferma l'unità delle carriere proprio perché voleva garantirsi la facoltà di influenzare l'intera magistratura: non soltanto i pubblici ministeri, anche i giudici. E ancora oggi, in quello stato "napoleonico" che resta la Francia, i progetti di una separazione delle carriere si infrangono contro lo scoglio bipartisan di una classe politica che vuole mantenere un massimo di influenza sul sistema giudiziario.

Già Montesquieu, inventore della teoria della separazione dei poteri, aveva riconosciuto l'importanza di una scissione interna all'ordine giudiziario quale garanzia della libertà del cittadino-imputato: seguito da tutti i maggiori teorici del costituzionalismo moderno. In effetti, soltanto una distinzione di funzioni (quindi di carriere) tra il pubblico ministero e il giudice garantisce che, nel processo, il giudice si ponga davvero come "terza" parte: imparziale, perché altrettanto indipendente dall'accusa che dalla difesa. In assenza di una separazione delle carriere, il pericolo di una confusione dei ruoli (o di un abuso dei poteri) si nasconde sempre dietro l'angolo. Non è stato Silvio Berlusconi, è stato Alexis de Tocqueville a denunciare la strapotenza del potere giudiziario quando «il tribunale che pronuncia le sentenze è composto dagli stessi elementi o è sottoposto alle stesse influenze del corpo incaricato di accusare».

Molto più che dall'appartenenza a un corpo giudiziario unico, l'indipendenza della magistratura risulta garantita dalla separazione costituzionale dei poteri. Per questo, ciò che va rigettato nell'attuale progetto di riforma della giustizia in Italia non è la separazione delle carriere, ma la trasformazione del Consiglio superiore della magistratura. Beninteso: se i magistrati giudicanti verranno effettivamente separati dai magistrati requirenti, un riassetto del massimo organo di autogoverno delle toghe si renderà comunque indispensabile. Ma non ci sarà alcun bisogno di stravolgere il profilo costituzionale del Csm. Meno che mai ci sarà bisogno di sdoppiare il Csm stesso.

Ancora una volta, la storia può orientarci in proposito. Nell'Italia fascista, il ruolo della magistratura venne fortemente ridimensionato a partire da un intervento sulla struttura del Csm: nel 1923, si abolì il principio dell'elettività dei suoi membri, che diventarono di nomina governativa. Naturalmente, nulla di simile viene oggi immaginato dal governo Berlusconi. Tuttavia, è concreto il rischio che un'aumentata influenza della politica sulla composizione e sulle attribuzioni del Csm si traduca in una perdita d'indipendenza dell'ordine giudiziario. Quanto a uno sdoppiamento del Csm, deriverebbe con fin troppa evidenza dall'abusato motto del divide et impera.

Forse, i nostri padri costituenti sbagliarono nel momento in cui stabilirono che «i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni», escludendo ogni separazione delle carriere. Ma i padri costituenti non si sbagliarono quando, fissando le competenze del Csm, scandirono che «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere». In democrazia, soltanto ai magistrati compete di governare se stessi.

11 aprile 2010

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