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La campagna elettorale senza fine

di Stefano Folli

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11 Dicembre 2009

Di tutto ha bisogno l'Italia di oggi, tranne che di una tensione permanente ai vertici delle istituzioni. Viceversa, i capitoli di questo brutto romanzo d'appendice sembrano infiniti. E' vero, Berlusconi ha parlato ieri in una sede non istituzionale, ma politica (il congresso dei popolari europei). Tuttavia egli era a Bonn - cioè fuori dei confini nazionali - non solo nella veste di capo del Pdl, bensì in quella di presidente del Consiglio in carica che parlava di fronte a una vasta rappresentanza della classe dirigente dell'Europa moderata. A cominciare da Angela Merkel.

Ebbene, agli esponenti del più grande partito continentale Berlusconi ha offerto una fotografia drammatica e inquietante del suo paese. L'ossessione verso la magistratura politicizzata ha fatto aggio su tutto il resto, al punto che le angosce domestiche sono state riversate senza alcun filtro su di un uditorio perplesso e incuriosito. Come in un intervento telefonico a un «talk show» serale, il presidente del Consiglio ha di nuovo delegittimato la Corte costituzionale, accusando di fatto gli ultimi tre capi dello Stato («tutti di sinistra») di aver coperto, volenti o nolenti, l'espropriazione della volontà popolare a vantaggio dei pubblici ministeri.

Questa sarebbe «la verità senza ipocrisie», come ripetevano ieri sera i collaboratori del premier. Tuttavia si tratta, nella migliore delle ipotesi, di una verità politica, utile in una campagna elettorale. Al contrario, la verità istituzionale è diversa e parla di un sistema fondato sull'equilibrio delle garanzie, come previsto dalla carta costituzionale. Ancora pochi giorni fa Giorgio Napolitano aveva voluto rassicurare il premier: nessun fattore improprio ed extra-politico avrebbe stravolto il cammino di una maggioranza nata dal voto degli italiani. Era un richiamo alla validità di un meccanismo garantista che ha proprio nel Quirinale il suo arco di volta. E che nessuno Spatuzza, allo stato delle cose, sarà in grado di spezzare.

Il fatto che Berlusconi affermi per l'ennesima volta di non riconoscersi in questo equilibrio, crea un problema politico-istituzionale piuttosto rilevante. La sfiducia conclamata verso la Corte Costituzionale e di fatto verso la presidenza della Repubblica (non parliamo della magistratura), mina nel profondo il patto istituzionale su cui si regge, non solo la legislatura, ma l'assetto complessivo dei poteri. Sotto questo aspetto, il presidente del Consiglio ha esposto al congresso del Ppe un manifesto elettorale, una piattaforma per rivolgersi presto o tardi al popolo in cerca di una nuova investitura. Di sicuro il suo non sembrava il discorso di un personaggio desideroso di unire il paese, piuttosto era l'appello di un combattente che si prepara all'ultima battaglia.

Nella sostanza, il Berlusconi di Bonn è, sì, un uomo esasperato dalle inchieste giudiziarie, ma è anche un leader politico che non teme di incrinare la stabilità istituzionale di cui dovrebbe essere il custode, in quanto capo della maggioranza. E c'è da dubitare che il vero significato dell'intervento di ieri sia il rilancio delle riforme costituzionali (dalla giustizia al presidenzialismo). Il centrodestra ha avuto per anni la possibilità di riformare il paese e, se si vuole, anche di riportare la magistratura nel suo alveo. Ma non lo ha fatto, lo ha solo minacciato. È tutto da dimostrare che domani, in un clima aspro e conflittuale, saranno centrati gli obiettivi mancati in un decennio.

È molto più probabile che il premier si proponesse tre risultati immediati. Primo, ricompattare dietro di sé il centrodestra percorso da gravi lacerazioni, da Milano alla Sicilia. Il problema non riguarda solo il presidente della Camera, ancora ieri molto critico verso il discorso di Bonn. Tocca anche una Lega sempre più forte e autonoma nel Nord, come si è visto nella polemica contro il cardinale Tettamanzi. Berlusconi sentiva il bisogno di riproporre la sua leadership anche sul piano mediatico.

Secondo, le norme di salvaguardia giudiziaria, a cominciare dalla disciplina del «processo breve», incontrano crescenti difficoltà. Il fuoco dell'artiglieria berlusconiana serve a spianare il terreno e suona come monito agli organi costituzionali affinchè non mettano bastoni tra le ruote del governo. Terzo, il premier parla e agisce, in Italia e all'estero, come se fosse sempre alla viglia di un trionfo nelle urne. La tensione perenne gli serve per tenere pronto e vigile il suo elettorato. Ma tutto questo ha un prezzo ed è il logoramento istituzionale. La Costituzione subisce colpi gravi, soprattutto nell'immaginario collettivo, e nessuno Stato è in grado alla lunga di reggere un simile conflitto. La destabilizzazione non paga.

11 Dicembre 2009
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