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Abiti nuovi per le multinazionali

di Giorgio Barba Navaretti

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11 Febbraio 2010

La chiusura d'impianti d'imprese straniere, dagli stabilimenti di alluminio dell'Alcoa ai laboratori di ricerca della Glaxo, fa molto rumore. La questione è in parte fisiologica e dunque non meriterebbe tanto chiasso: ovunque le imprese multinazionali possono decidere di spostare le proprie attività. I lavoratori per strada pongono un serio problema di welfare, ma identico a quello della chiusura di un impianto nazionale.
In parte, però, la partenza dei capitali esteri può segnalare anche la debolezza strutturale di un territorio come luogo di produzione. Soprattutto quando, vedi l'Italia, il valore dello stock delle attività detenute da imprese straniere è pari a circa il 15% del Pil, meno della metà della media dell'area-euro. E se il territorio non funziona più per la multinazionale, spesso non funziona neppure per l'impresa nazionale. Gli investimenti esteri sono il termometro della competitività di un paese, non come brand (vendere il Made in Italy nel mondo) bensì come luogo di produzione e creazione di ricchezza: insomma hanno a che fare con il territorio, sono un problema intrinsecamente glocal.
La partita sulle multinazionali, dunque, è in verità sulla geografia dei luoghi di produzione, e con la crisi economica ha assunto confini e prospettive nuove. Quali? Certamente crescono le iniziative orientate ai mercati dei paesi emergenti. Il basso costo del lavoro, le particolarità della domanda locale impongono spesso alle imprese di produrre in loco. Ovviamente anche nel mondo industrializzato molti luoghi di produzione continuano a essere efficienti e ad attrarre attività produttive.
Negli ultimi tempi abbiamo assistito anche a diversi episodi di "rilocalizzazione" d'impianti nei paesi di origine, soprattutto negli Stati Uniti. Ma questa è una strada non disponibile a paesi come l'Italia, con l'euro forte, limitati nella concessione dei sussidi dalle regole europee e dai vincoli di bilancio e con un potere d'acquisto dei lavoratori già basso e difficilmente comprimibile.
Per noi è possibile solo una strategia virtuosa, la più difficile da percorrere: l'attrazione degli investimenti attraverso fattori reali di competitività, ossia non drogati dai sussidi pubblici. Il nostro paese ha il vantaggio (che gli Usa non hanno) della propria vocazione manifatturiera, della concentrazione di competenze uniche, spesso riunite territorialmente. Su queste competenze devono essere innestati gli investimenti del futuro.
Guardando però alle caratteristiche dei nuovi progetti d'imprese straniere arrivate in Italia negli ultimi 10 anni è possibile capire quanto ardua sia questa via. Il nostro paese ha attratto poche iniziative ad alto valore aggiunto, come laboratori di ricerca o headquarter regionali e ad alta intensità di lavoro, come impianti manifatturieri.
Schiacciata tra il basso costo del lavoro dell'Est Europa e i poli tecnologici del Nord, l'Italia ha ottenuto soprattutto catene di grande distribuzione, cinema, alberghi o progetti infrastrutturali. Insomma attività che modificano radicalmente le periferie delle grandi città e le nostre abitudini di consumo, ma che hanno poco a che vedere con il sistema produttivo e lo sviluppo tecnologico. Certo, ci sono anche molti felici esempi di eccellenza, ma i dati aggregati ci dicono quanto sopra.
Questa tendenza indica che non è possibile rafforzare e neppure preservare la competitività del paese senza affrontare i soliti nodi strutturali che minano i costi di produzione della nostra economia. Il caso Alcoa è da questo punto di vista esemplare. Cercare di convincere l'impresa a rimanere in Sardegna garantendo condizioni particolari di fornitura d'energia non ha senso, a prescindere dalla controversia sugli aiuti di stato con la Commissione europea.
Se in Italia l'elettricità costa il doppio che in Francia, questo è un problema per tutte le imprese del paese. Dare condizioni speciali all'Alcoa è come mettere la pezza su dei pantaloni ormai troppo lisi per stare insieme. Anche se si riuscisse a trattenerla, comunque il nostro paese continuerebbe a perdere posizioni nella geografia dei luoghi di produzione. È ora di cucire dei pantaloni nuovi per rafforzare la nostra vocazione a produrre.

11 Febbraio 2010
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