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L'euro ha paura del calcio di rigore

di Carlo Bastasin

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11 febbraio 2010
L'euro ha paura del calcio di rigore

Nell'ipotesi migliore il vertice dell'Unione europea darà oggi un segnale di comune attenzione al rischio d'instabilità di Grecia, Spagna e Portogallo. Nell'ipotesi migliore i piani di rientro del debito di questi paesi ne riceveranno credibilità e la crisi di questi giorni potrà essere arginata. Questo non significa che i problemi saranno risolti, bensì solo rinviati. L'instabilità interna alla zona euro non è (solo) di natura fiscale, ma il sistema di politica economica della zona euro è quasi esclusivamente centrato sul problema pre-euro di far convergere i deficit pubblici. È una specie di gabbia mentale costruita negli anni 90 - proprio per accettare l'Italia nell'euro - e da cui non siamo mai veramente usciti: regole fisse sui conti pubblici come sostituto di un comune governo dell'economia. Eppure prima della crisi la convergenza dei disavanzi pubblici era già molto avanzata. Quello che era preoccupante era invece la distanza nella competitività delle diverse economie, testimoniata da bilance con l'estero la cui divergenza era in costante aumento dall'entrata in vigore dell'euro fino a oggi.
Così, sotto la pressione dei mercati, se tutto andrà bene, metteremo le briglie al collo ai conti pubblici di alcuni paesi, ma il problema della divergenza continuerà a riproporsi. Benché la posizione debitoria con l'estero della zona euro sia più o meno in equilibrio, le partite correnti dei singoli stati sono tra loro molto diverse. In alcuni casi le differenze tra i surplus di alcuni paesi e i deficit di altri sono maggiori del disavanzo che separa Cina e Stati Uniti e che è normalmente citato come una delle maggiori cause della crisi globale.
Spagna, Grecia e Portogallo sono costretti a vendere i propri titoli all'estero per finanziare un eccesso di domanda interna rispetto ai risparmi nazionali. In tempi di instabilità economica tali squilibri possono essere più difficili da rimediare e quando cresce l'avversione al rischio degli investitori i costi diventano proibitivi. Se i premi sui tassi d'interesse aumentano molto, diventa dubbio perfino che il debito esterno sia sostenibile. Non potendo svalutare, la ricetta convenzionale dei manuali è molto semplice: i paesi in deficit devono rallentare i consumi pubblici e privati, consentendo ai risparmi di aumentare e di compensare il disavanzo.
Questa è la classica via d'uscita deflazionistica. L'Irlanda sta seguendo questa strada e Grecia, Spagna e Portogallo dovranno fare la stessa cosa. La deflazione aggiusterà un po' la bilancia con l'estero, ma in una prospettiva di bassa crescita renderà ancora più difficili le riforme necessarie a recuperare competitività.
Se i ministri della zona euro vogliono uscire da queste gabbie mentali, devono intervenire sulle riforme interne dei paesi membri in materia di lavoro e anche di dinamismo delle imprese, sia nel settore privato sia in quello pubblico. Significa interferire nella vita politica degli stati nazionali. Molti ritengono che non sia augurabile. In genere sono vittima di un errore ottico: l'idea di un governo economico della zona euro viene fraintesa infatti con l'idea di una politica unica per paesi - come Germania e Spagna - che hanno bisogno di politiche opposte. Ma al contrario un governo comune serve proprio a non applicare l'uniformità ma a utilizzare margini di discrezionalità politica, caso per caso. È però politicamente possibile?
Primo: la pressione politica tra i paesi dell'area euro è più potente di quanto normalmente pensiamo. Come dimostra oggi la Grecia, i paesi in difficoltà sono ansiosi di ricevere aiuti dai partner in qualsiasi forma. Nonostante gli ovvi limiti di legittimità formale, la questione della sovranità finisce abbastanza rapidamente per essere spazzata dal tavolo perfino quando il coordinamento tocca la materia fiscale.
Secondo: come osservato da un recente rapporto della Commissione europea, una gran parte delle divergenze nelle partite correnti dei paesi membri può essere ricondotta a problemi di domanda interna. Tuttavia queste divergenze non possono essere spiegate dai fattori determinanti tradizionali e di medio-termine delle partite correnti, quali la politica fiscale o lo sviluppo demografico. Dalla metà degli anni 90, solo una parte della divergenza dei tassi di cambi effettivi entro la zona euro - il valore dell'euro scontato con i livelli dei prezzi nazionali - può essere spiegata da "fattori benigni" legati all'adeguamento delle economie all'euro. La spiegazione delle divergenze risiede molto più chiaramente nella modesta convergenza dei salari reali e nelle ampie differenziazioni nel potere di mercato delle imprese, così come si sviluppa sotto l'influenza delle regolazioni protettive nazionali.
Le divergenze riflettono spesso risposte salariali inappropriate ai cambiamenti di produttività, o aumenti eccessivi di salari soprattutto nel settore pubblico, o ancora sensibilità diverse delle politiche salariali ai cicli economici e politici. Rigidità analoghe sono comuni tra le imprese del settore dei servizi e rappresentano un riflesso del protezionismo politico nei confronti delle imprese locali.
Terzo: affrontare il problema dello squilibrio tra consumi o risparmi non influisce necessariamente sulle cause degli squilibri nelle partite correnti. Nei dieci anni dell'euro i disavanzi pubblici hanno continuato a convergere, mentre gli squilibri nelle bilance con l'estero hanno continuato ad aumentare. In effetti gli squilibri delle partite correnti sono legati a quelle politiche di protezione delle imprese e dei lavoratori in ogni singolo paese che finiscono per segmentare il mercato unico, causando tra l'altro un insufficiente allineamento dei prezzi tra le diverse economie dell'euro.
  CONTINUA ...»

11 febbraio 2010
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