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Allarme maltrattamenti, l'Italia spesso maglia nera

di Mauro Palma*

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11 gennaio 2010

Mentre si celebrano i vent'anni del CPT (Comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti disumani o degradanti), il problema in Europa non è affatto risolto. Si sono fatti – è vero – molti progressi, ma la piaga dei maltrattamenti è ancora viva e preoccupante. Un problema, questo, da cui l'Italia non è purtroppo esente.

Questi comportamenti avvengono soprattutto nelle prime ore successive all'arresto e coinvolgono quell'autorità pubblica che dovrebbe essere responsabile, non solo della custodia delle persone, ma anche della protezione dei loro diritti. E fino a quando non sarà pienamente acquisita la consapevolezza che proprio il rispetto di ogni persona è il comportamento più efficace per combattere ogni forma di criminalità, la battaglia per sradicare tortura e maltrattamenti non sarà vinta.

In Italia il problema principale è oggi il ritmo di crescita della popolazione carceraria, tra i più alti in Europa. Inoltre, il nostro paese è maglia nera per l'alta percentuale di coloro che in carcere sono in attesa di sentenza definitiva: una situazione che è il prodotto sia della lunghezza dei processi sia dell'esteso ricorso alla misura detentiva in fase d'indagine. Allarmante è l'elevato numero di decessi in carcere e, tra questi, il numero di suicidi correlati col sovraffollamento. L'elemento positivo che caratterizza la situazione italiana è la legge penitenziaria, che è tra i migliori in Europa. Ma che, come avviene per molte delle nostre leggi, è ben lontano dall'essere pienamente attuato.

Per quanto riguarda l'immigrazione, il caso dei respingimenti in mare ha rappresentato una situazione inedita nel panorama europeo su cui è bene riflettere anche sul piano culturale oltre che interrogarsi sulle garanzie da offrire a persone in quelle condizioni. Così come lasciano perplessi alcune espulsioni coatte, attuate nonostante le sentenze contrarie della Corte europea. Infine, attenzione va anche rivolta ai trattamenti sanitari obbligatori per motivi psichiatrici, indagando proprio a partire da un caso di decesso avvenuto l'estate scorsa.

Sono vent'anni, però, che, in base a un trattato ratificato dai 47 paesi del Consiglio d'Europa, il Comitato per la prevenzione della tortura realizza visite periodiche o ad hoc, non annunciate, nei luoghi di detenzione, nelle celle di custodia delle varie polizie, negli ospedali psichiatrici, nei centri per immigrati. Visita e controlla documentazione e condizioni delle persone, per poi indirizzare agli stati le conseguenti raccomandazioni e vigilare che vengano implementate. Un'azione che costituisce di per sé un successo perché indica che in Europa non ci possono essere luoghi impenetrabili e non consentiti al controllo.

Ma vent'anni sono un periodo breve per guarire una piaga secolare che fa parte, purtroppo, di certa cultura, pronta a riemergere alla prima emergenza, secondo cui i maltrattamenti possono, in casi estremi, essere consentiti in nome della sicurezza della collettività.

Proprio l'importanza e la limitatezza del cammino fin qui percorso ha portato a celebrare i vent'anni del CPT con un triplice approccio: soddisfazione per i risultati conseguiti; consapevolezza delle nuove difficili sfide; esportazione del nostro modello fuori dall'Europa. È stato, infatti, adottato dall'ONU e già ratificato da 50 paesi un protocollo che prevede l'istituzione di un organismo simile a livello globale: in grado di compiere visite in tutti i luoghi di privazione della libertà, anche interagendo con un'autorità nazionale indipendente che goda dei suoi stessi poteri. Più della metà degli stati dell'Unione europea ha ratificato il protocollo e ha istituito questa autorità nazionale indipendente: l'Italia ancora no; alla sua iniziale firma di sei anni fa, non è seguita la ratifica.

Tre sono le sfide che il Comitato vuole ricordare nell'occasione dei suoi vent'anni e che rappresentano le linee del suo attuale impegno: la sovrappopolazione carceraria, la detenzione degli immigrati e la persistente impunità dei pubblici ufficiali responsabili di maltrattamenti.
Perché la crescita della popolazione carceraria, unita alla crisi economica e ai minori investimenti in questo settore, porta inevitabilmente a condizioni di detenzione inaccettabili, oltre che a vanificare qualunque finalità della pena. Perché la privazione della libertà di migranti illegalmente presenti nel territorio europeo avviene in numero sempre più alto, per periodi sempre più lunghi e in condizioni sempre più preoccupanti. Perché l'impunità dei responsabili di maltrattamenti oltre a essere nuova violenza verso le vittime è un attacco a chi opera democraticamente all'interno delle forze dell'ordine.

Proprio quest'ultimo aspetto, la lotta all'impunità, costituisce il banco di prova dell'impegno degli stati a cooperare con il Comitato nel suo compito di tutelare la dignità e l'integrità personale di ogni persona, anche di chi ha commesso un reato.

*(Presidente del Comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti disumani o degradanti)

11 gennaio 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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