La più grande crisi economica e finanziaria del dopoguerra è ancora troppo vicina per vederne con lucidità tutte le implicazioni economiche e politiche. Non c'è dubbio tuttavia che essa avrà anche profonde implicazioni sulle idee di economisti e scienziati sociali. Schiere di economisti sono alacremente al lavoro per capire che cosa non ha funzionato, quali errori sono stati commessi, quali incentivi sono sistematicamente distorti. Ma oltre agli aspetti tecnici, la crisi induce a riflettere su questioni ancora più profonde, che toccano i principi fondamentali su cui si reggono le interazioni sociali e politiche nelle moderne economie di mercato. Una delle più importanti riguarda i rapporti tra etica ed economia.
La questione dei rapporti tra etica ed economia ha una lunga tradizione, lunga almeno tanto quanto la storia delle idee in campo economico. Adam Smith, il fondatore del pensiero economico moderno, vedeva nell'empatia tra esseri umani, prima ancora che nella massimizzazione del benessere materiale, la principale motivazione delle azioni individuali.
Più in generale, l'idea che il buon funzionamento di un'economia di mercato e di uno stato di diritto si regge anche su precisi presupposti morali è parte integrante di un'antica tradizione di pensiero liberale in economia. Il rispetto per i diritti di proprietà, il mantenimento della parola data e degli impegni presi, il rispetto delle aspettative e delle intenzioni tra le parti contraenti devono discendere anche da un comune sistema di valori, non solo dagli incentivi economici o dal timore di essere sanzionati dalla legge.
Senza questi presupposti, un sistema basato sul libero scambio difficilmente potrebbe funzionare. Inoltre, e indipendentemente da incentivi e sanzioni, chi svolge determinate professioni ha obblighi e responsabilità anche morali nei confronti della società: il medico nei confronti dei pazienti, l'avvocato verso i clienti o, per ricordare un esempio recente in cui questo principio era evidentemente venuto meno, l'auditor verso i risparmiatori.
Infine, senza un diffuso senso civico e un generalizzato rispetto per le istituzioni e per il bene pubblico, la convivenza politica e sociale sarebbe gravemente compromessa e la stessa sopravvivenza delle istituzioni democratiche sarebbe a rischio.
Tuttavia la tradizione liberale si ferma qui. Essa sottolinea l'importanza di condividere un particolare insieme di regole di comportamento che facilitano le interazioni sociali. Ma si guarda bene dal chiedere che vengano condivisi anche i fini, se non nel senso che gli individui devono sempre essere riconosciuti come fini e mai usati come mezzi per raggiungere un altro fine.
Al contrario, nel pensiero liberale l'economia di mercato in uno stato di diritto è molto di più di un mezzo per produrre ricchezza e allocare con efficienza risorse scarse. Essa è anche e soprattutto un sistema che consente a ogni individuo di perseguire il suo fine, i suoi obiettivi personali, di autodeterminarsi in linea con il suo particolare sistema di valori.
La tradizione cattolica, e in particolare la recente enciclica papale, Caritas in veritate, condivide alcuni presupposti della visione liberale, ma si spinge oltre. Essa parla di "persona", più che di individuo, e attribuisce alla persona un particolare contenuto di valori e di fini ultimi. E il bene comune è visto come principio guida dell'azione individuale anche in campo economico, e non solo con riferimento alla politica.
Nel libro Il buono dell'economia. Etica e mercato oltre i luoghi comuni scritto da Gianpaolo Salvini e Luigi Zingales con Salvatore Carrubba, un economista liberale e un filosofo gesuita discutono tra loro di questi argomenti, prendendo lo spunto dai recenti sconvolgimenti dell'economia mondiale, per affrontare alcuni dei più spinosi interrogativi che ci stanno davanti. La più grande crisi economica del dopoguerra è anche una crisi di valori, o le sue cause sono prevalentemente tecniche ed economiche? Quali saranno le conseguenze politiche della crisi, e in che misura i nuovi equilibri politici interni ai paesi occidentali porteranno a una trasformazione del capitalismo moderno? Dobbiamo davvero ripensare ai confini tra economia e politica, come suggerisce il pontefice nella sua enciclica? E come dovremmo rivedere i contenuti di ciò che viene insegnato nelle università, per indurre a prestare più attenzione ai fondamenti etici delle interazioni economiche? Queste sono alcune delle questioni discusse da due tra i più profondi e lucidi osservatori dell'economia e della società moderne, sotto la magistrale regia di un grande giornalista economico.
Le discussioni dai diversi punti di vista sono illuminanti, così come lo sono i molti punti in comune. Due idee in particolare meritano di essere sottolineate. Primo: come ci ricorda Luigi Zingales, sarebbe un errore cercare solo nell'etica e in una supposta degenerazione del capitalismo le cause principati della crisi finanziaria. La crisi è riconducibile a ben identificabili distorsioni nella gestione del rischio all'interno delle banche, e a un'errata impostazione della regolamentazione e della supervisione. Questi errori possono e devono essere corretti, e incolpare solo l'etica e i valori senza correggere le distorsioni di fondo non ci aiuterebbe a evitare la prossima crisi.
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