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Il meno peggiore dei mondi possibili

di Martin Wolf

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11 Novembre 2009

«Una crisi è un modo strano per celebrare un anniversario». È l'ironico giudizio di Erik Berglöf, chief economist della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers). Ma proprio una crisi è quella a cui stiamo assistendo nei paesi che hanno cominciato vent'anni fa a uscire dal comunismo. Dunque il capitalismo ha fallito, come ha fallito il comunismo? No. Alcuni paesi in transizione sono in crisi, non è in crisi la transizione. Lo stesso giudizio si può applicare anche altrove: sono i paesi capitalisti in crisi, non il capitalismo in quanto tale.
Ma una riforma è necessaria. Il grande pregio delle democrazie liberali e delle economie di mercato è la loro capacità di riformarsi e adattarsi. Hanno dimostrato queste qualità in passato e dovranno farlo un'altra volta.

Per chi come me è nato poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, la guerra fredda ha rappresentato il conflitto intellettuale e politico centrale della nostra vita. Con il crollo del comunismo ha avuto termine un'epoca catastrofica di ideologie politiche millenaristiche e l'illusione di un'economia pianificata in modo razionale. La libertà offerta dalla democrazia e la prosperità garantita dai mercati hanno prevalso. Ma il fatto che il comunismo sia spirato non con un botto, ma con un pigolìo, lo dobbiamo in gran parte a Mikhail Gorbaciov.
Ma il 2009 è un anno istruttivo per riconsiderare quello che è successo. Un anno fa, il capitalismo sembrava correre verso il baratro. Con colossali sforzi, gli stati lo hanno rimesso in carreggiata. Secondo i calcoli di Piergiorgio Alessandri e Andrew Haldane della Banca d'Inghilterra – in un nuovo, ottimo studio – il valore lordo complessivo degli interventi a favore delle banche è stato di 14mila miliardi di dollari (9.400 miliardi di euro). Questo è socialismo di stato.

E allora, che cosa significa la crisi per quei paesi che vent'anni fa sono usciti dal socialismo? E che significa per il mondo? Per i paesi usciti dal socialismo ha significato una dura recessione. Secondo la Bers, il calo del prodotto interno lordo in queste nazioni nel 2009 sarà mediamente del 6,2%. Unica eccezione l'economia polacca, che quest'anno dovrebbe crescere dell'1,3%. In generale, osserva la Bers, «la dimensione del calo produttivo è legata ai boom del credito che hanno preceduto la crisi e all'indebitamento con l'estero». Quando le bolle scoppiano fanno male.

Questi tracolli sono reali e preoccupanti, ma devono essere contestualizzati. Innanzitutto, molti di questi paesi hanno registrato grossi incrementi della produzione dopo l'iniziale e in gran parte inevitabile tracollo seguito alla fine del comunismo. Anche in questo senso la Polonia è stata la star. In generale, i paesi di maggior successo sono stati quelli che hanno attuato le riforme più serie. In secondo luogo, i paesi in transizione non hanno quasi mai fatto marcia indietro sulle riforme, anche in presenza di cambi di governo. È uno schema abbastanza coerente con quello che sta succedendo più in generale nei paesi emergenti. L'assenza di un modello economico alternativo credibile è evidente. Nemmeno l'avventurismo populistico sembra far presa. Man mano che la ripresa comincia a prendere slancio a livello mondiale, le grandi eredità del crollo dell'impero sovietico - l'integrazione di buona parte dell'Europa e la concomitante diffusione della libertà fino ai confini della Russia, se non oltre - rimangono intatte.

Eppure la crisi offre degli insegnamenti importanti. Il filosofo Karl Popper ha indicato il giusto approccio, distinguendo l'«ingegneria sociale frammentaria», mirata a risolvere problemi specifici, dall'«ingegneria sociale utopistica», mirata a trasformare la società nel suo complesso (uno scopo che nella pratica «ha portato solo all'uso della violenza al posto della ragione»).
Il riformatore deve individuare la causa della malattia prima di tentare una cura. Nel caso di questa crisi, il problema sta non tanto nel sistema di mercato nel suo insieme, ma nei difetti del sistema finanziario e monetario mondiale. Fortunatamente, governi e banche centrali hanno imparato la lezione degli anni 30 e hanno deciso, giustamente, di impedire il tracollo del sistema finanziario e dell'economia. Nella stessa ottica, sono stati profusi grandi sforzi per salvare i paesi dell'Europa centro-orientale colpiti dalla crisi. Ora bisogna dar prova di analogo pragmatismo per portare a compimento l'uscita dalla crisi. Per far questo, servirà un sostanzioso ribilanciamento della domanda globale. E serviranno anche ulteriori riforme. Per i paesi in transizione, fare marcia indietro nell'integrazione finanziaria sarebbe costoso e inutile. Gli obiettivi principali della riforma devono invece rendere l'economia meno vulnerabile alle crisi e limitare in futuro una crescita eccessiva del credito.

Analogamente, a livello globale, servono riforme radicali nel sistema finanziario e in quello monetario. Il sistema bancario ha giocato d'azzardo con i soldi pubblici a livelli intollerabili. Tutto questo deve finire, e può finire in due modi: o assoggettando il settore al mercato o facendolo diventare un'industria sotto tutela dello stato e fortemente regolamentata. Anche la necessità di limitare le grandi bolle creditizie dev'essere parte integrante delle nuove misure. Infine, la dipendenza del sistema monetario globale dalla valuta di una superpotenza superindebitata non è né auspicabile né sostenibile.

  CONTINUA ...»

11 Novembre 2009
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