Un disegno di legge che prescrive tempi e modi del futuro «processo breve» (al massimo sei anni nei tre gradi) in luogo di un intervento diretto e brusco, volto a sforbiciare i tempi della prescrizione. Ecco il compromesso emerso dall'incontro tra Berlusconi e Fini. Il massimo del compromesso possibile, si potrebbe dire, fra due personaggi che non vogliono spezzare il loro legame politico, ma che ormai si guardano con reciproco sospetto.
La differenza tra le due ipotesi può sembrare irrisoria, in realtà è sostanziale. Lo strumento del disegno di legge incanala la vicenda nei ranghi parlamentari: addirittura restituisce alle Camere un ruolo centrale, almeno sulla carta. Consente un confronto tra maggioranza e opposizione, il che significa avviare un gioco di emendamenti correttivi del testo base e realizzare qualche possibile convergenza. Non a caso la reazione di Bersani è cauta, ma non del tutto negativa, mentre è noto che sui temi della giustizia l'Udc di Casini tende a essere vicina alle posizioni del centrodestra.
Tuttavia un compromesso resta un compromesso. Vale a dire una soluzione fragile che ora dovrà essere sottoposta a infinite verifiche: dall'effettivo contenuto del disegno di legge ai successivi passaggi. La questione del «processo breve» è lungi dall'essere risolta. Di fatto però il presidente della Camera ha aiutato Berlusconi a cavarsi d'impaccio. E forse gli ha anche evitato un nuovo conflitto con il Quirinale. La linea intransigente («o con me o contro di me») rischiava di essere disastrosa sotto il profilo politico e foriera di gravi incomprensioni sul piano istituzionale.
Viceversa, la legge sul processo breve può essere ora presentata - con parecchia buona volontà - come un passo che tiene nel debito conto i moniti dell'Europa contro le lungaggini del nostro sistema giudiziario. Il vantaggio per il premier è evidente, perché si avrebbe comunque la prescrizione dei processi che lo riguardano. Ma la legge in prospettiva può anche servire a dare ai cittadini un sistema processuale più rapido. Introducendo quelle norme favorevoli agli incensurati che dovranno essere precisate perché suscettibili di dar luogo a ulteriori ambiguità.
Si vedrà. Al momento lo scetticismo è d'obbligo: il sentiero è stretto e si capisce che Berlusconi è costretto quasi ogni giorno a un logorante lavoro di mediazione all'interno della sua coalizione. Accantonato il capitolo giustizia, ora si riapre il tema delle candidature nelle regioni. E nulla è definito: non lo è al Nord e adesso nemmeno al Sud dopo l'esplosione dell'affare Cosentino. È però chiaro un punto. La minaccia delle elezioni anticipate, più volte agitata non tanto da Berlusconi quanto dai suoi interpreti, vale solo come strumento di propaganda e di pressione psicologica. Nei fatti non esiste.
Ieri era l'occasione per metterla sul tavolo, come una pistola carica. Viceversa si è andati al compromesso grazie anche al buonsenso di Fini. In fondo Berlusconi sa che i falchi della sua maggioranza possono essergli utili in qualche circostanza, ma i loro consigli alla lunga sono pericolosi. Il voto anticipato vagheggiato come fosse una spedizione punitiva contro avversari e «falsi amici» è un'ipotesi irrealistica e sotto il profilo costituzionale non sta in piedi. Al presidente del Consiglio spetta di governare come può con la maggioranza di cui dispone. Evitando le trappole del logoramento.